venerdì 22 luglio 2011

COME IL CURRICULUM CHE NON SCRIVERAI MAI (PARTE 3)




Ian Davenport - "Poured Lines: Mixed Greys & Black"





(Fred, 7.20, casa di Aurora)

Sveglio.
Hey dico è l’ora di alzarsi, ora di sentire Nic, di scrollarsi di dosso questo senso di malessere da letargo. Ho fatto la cosa sbagliata. Di nuovo?
Il suo braccio attorno al collo, stesa in posizione fetale abbracciata a me a cucchiaio, diochemerda.. Russa leggermente respirando con il naso mezzo chiuso. Schifo.
Il salotto è ancora un bel casino, la tavola è ancora apparecchiata di bottiglie sgonfie e riso pilaf raggrumato in piccoli mucchietti (sembrano uova lattescenti di rana rapprese). La scatola di cioccolatini quasi vuota. Bocce di vino semivuote.  Persiane giù.
Dico, cazzo, siamo finiti per scopare?
Quando se ne sono andati via tutti a ruota dopo che Nic era uscito di lì in fretta e furia - erano le tre meno venti - abbiamo bevuto ancora un po’ della  birra portata da Jos: birroni da 66 belli tosti , rimasti avanzati, e lei mi fa resta qui a dormire e io dico OK - era tardi e non avevo modo di tornare verso casa, scelta di comodo - siamo amici dico fra me non succederà niente - lei chiaramente infoiata, tenuta a fame di cazzo com’era - siamo amici, sarebbe la cosa più sbagliata che potrebbe succedere quindi non succederà, lei non mi piace affatto dico, Aurora, tse.. Ma.
Lei fa la lolita, ballando sulla musica che viene da youtube sul suo portatile, continua a mettere pezzi dei Beach Fossils e dei Nouvelle Vague e beve ancora, è già ubriaca da non capire più niente e io le vado dietro. Balla in modo goffo di fronte a me, io seduto sul divano con la bottiglia in mano, un po’ irrigidito, lei si fa avanti.
La notte ti rende debole. Ma a lei la notte mica l’aveva fatta bella.
E lei è venuta su di me e ha cominciato a baciarmi con troppa lingua e troppa saliva, veramente disgustoso, tutto sommato però ho pensato che la forma dei suoi seni grandi non fosse affatto male dentro quel vestito e lei mi fa mmm mugugnando in modo forzato e viscido, ma orco giuda la notte mi fa debole e abbiamo scopato.
Sono durato un eternità un po’ perché tutto quell’alcool m’aveva ammazzato la sensibilità un po’ perché la nave continuava ad affondare – succede sempre così quando non mi piace una ragazza – più che un orgasmo è stato un parto. E lei muggiva e faceva gridolini acuti che mi facevano ammosciare tutto. Orribile.
Poi abbiamo aperto il divano letto e ci siamo messi a dormire io con la sensazione di avere fatto proprio la cosa sbagliata - talmente sbagliata che è dovuta succedere -  lei forse triste più di me.
E stamattina me la ritrovo avvinghiata addosso come un koala.
Meglio far finta che non sia successo niente.

Mi alzo dalla branda smarcandomi dal suo braccio bello in carne che odora di crema detergente per il corpo e vado in bagno. Mi lavo la faccia. Do un occhio al telefono , non mi ha cercato nessuno, che sollievo.
Lei dorme ronfando mollemente ancora mezza sbronza. Raccolgo le mie cose. Chiudo piano il portone di casa. Fuori. Finalmente.
Scendo le scale del condominio dal 5° piano a passo spedito verso il primo bar – caffè lungo in tazza grande arrivo – alla tromba del 2° piano una porta si chiude alle mie spalle.
Passi di donna dietro di me e quella voce.
- Fred? Sei Tu? Cosa ci fai qui?


sabato 9 aprile 2011

ZOE



(una storia breve di Emilio Brinis)




Il giorno in cui si  recò agli studios per firmare il contratto indossava dei vecchi blue jeans sbiaditi e stretti sul sedere, delle scarpe da ginnastica rosse e bianche ed il suo giubbino in pelle beige. I capelli biondi ossigenati le scendevano lisci sulle spalle. Lungo I corridoi incontrò quelle che a suo avviso dovevano essere altre attrici, magari ricche e famose; indossavano scarpe con i tacchi alti e collant, abiti corti e stretti, pettinate e truccate in modo seducente e impeccabile…erano proprio perfette, quasi finte. Non la salutavano, procedevano spedite e serie, come in ipnosi…non le piacevano.
“Beh, chi se ne frega” - pensò,-  “sono qui per un po’ di soldi, e magari per una volta sola può essere divertente”. 
Incontrò il manager che si sarebbe occupato di lei e firmò il contratto.
Scacco Matto”, che nome idiota pensò. Uscendo dagli studios osservò la Valley, la magnifica San Fernando Valley, con le sue grandi distese ed il cielo infinito e si sentì leggera, libera…serena come chi finalmente trova la soluzione del momento. Sorrise.
Prese la macchina e guidò e guidò, ascoltando musica americana sotto il grande cielo americano. Cantò. Poi tornò al motel e rise dello squallore della sua stanza...era in viaggio, e non voleva finisse mai. Quella sera uscì, bevve delle birre e si divertì. Fanculo a tutti quelli sfigati che lavorano otto ore al giorno per cinque giorni alla settimana, magari per pagare un mutuo o mantenere la famiglia...Pensava al futuro e vedeva lunghi interminabili viaggi in autostrada, vedeva la sua auto sfrecciare attraverso stati e confini. Niente progetti. Niente futuro. Vita e basta. Esistenza allo stato puro.
Il giorno del film si sentiva nervosa; aveva scopato con molti ragazzi prima, alcuni dei quali erano sconosciuti, ma questo non l’aveva nemmeno mai visto, non ci aveva mai scambiato una parola. E poi...farlo davanti ad una cinepresa...non le era mai successo, e un questo fatto un po’ la inquietava.
Ad ogni modo...Scacco Matto” era un gonzo ambientato in una sala da gioco di provincia; le attrici erano tutte ragazze molto giovani, gli attori un po’ meno. Non appena vide la sala pensò che non le sarebbe mai venuto in mente di fare sesso in un posto del genere; era squallida e triste, vecchia…un posto quasi fatiscente. Chissà perché non era ancora stata demolita.
Le due donne sulla cinquantina addette alla preparazione delle ragazze le sistemarono un po’ i capelli e la truccarono in modo lieve...entrambe portavano i capelli rossi colorati, acconciati attorno a dei bigodini di plastica, durante il servizio masticavano gomme o fumavano sigarette. Le ricordarono che durante le riprese, dopo essersi sfilata la gonna e aver tolto il top, avrebbe dovuto tenere i calzettoni bianchi al ginocchio. “Che scemenza” pensò.  Non si sentiva entusiasta del preambolo della nuova esperienza.
Conobbe l’attore con il quale avrebbe girato la scena di lì a poco: americano puro, viso non molto intelligente, palestrato e rasato...le si presentò esordendo con un paio di battute sceme. Non poté fare a meno di notare che era già in erezione. Era strafatto di Viagra e cocaina.
Il regista convocò tutta la troupe ed il cast per le ultime raccomandazioni, dopodichè iniziarono le riprese. Dal momento che la sua sarebbe stata la terza, andò a sbirciare la prima scena, da dietro le quinte. Due stalloni americani purosangue, muscolosi e rasati, uno dei quali portava il tatuaggio del corpo dei marines, si davano da fare con una ragazzetta minuta, acconciata quasi come lei. Attorno al letto si muovevano il cameraman, il tecnico delle luci e del suono, ed alcuni fotografi, tutti uomini, allontanandosi e avvicinandosi alla scena. Alcuni commentavano tra di loro, valutando l’interpretazione e la qualità delle fotografie, a voce bassissima. Erano per la maggior parte in erezione, e quella sera si sarebbero masturbati. Intanto i due uomini si davano da fare con la ragazza, ma non sembrava che lei si divertisse. La scopavano come macchine.
Scappò in bagno, dove nessuno poteva vederla, per farsi un po’ di coraggio. Cercò di convincersi a non pensare a niente, a nessuno. Cercò di scacciare ogni pensiero. Ed i conati di vomito.
Fu il turno della seconda ragazza. Poi il suo.
L’uomo iniziò a palpeggiarla sui seni e sul sedere, a leccarle il collo e le spalle senza concedersi una pausa per baciarla o rivolgerle una benché minima parola. Iniziò a spogliarla e a succhiarle i seni, poi a sua volta si levò calzoni e camicia. Il copione prevedeva che lui avrebbe mantenuto il cappello da cow boy e gli stivali texani…non era molto eccitante. Le sputò sulla fica, ci infilò un dito dentro e lo mosse in modo spasmodico, come uno stantuffo a ripetizione. Lei non si bagnava. Si diede da fare con la bocca sul suo cazzo, eretto dalle sostanze assunte. Poi passarono alla penetrazione.
Aveva già fatto sesso molte volte, ma questo…cos’era? Accoppiamento meccanico, telecomandato, brutale…quel cow boy la scopava con furia quasi animalesca. I fotografi scattavano, scambiandosi qualche commento; quanti occhi erano puntati su di loro. Quanti lo sarebbero stati. Il bruto continuava a muoversi avanti e indietro, dentro e fuori di lei, gemendo e gemendo rumorosamente. Anche lei gemeva. Fingeva. Non provava nulla, o almeno nulla di buono. Fissò per un istante la folla della troupe. Le venne in mente il fratello.
“Basta!” urlò singhiozzando. “Mettimelo nel culo e facciamola finita!”
Il cow boy eseguì l’ordine come un robot. Come un cazzo di soldato scelto. Entrò con un po’ di fatica ed iniziò a stantuffare  a tempo. Questa volta le bruciava. Faceva male.
Finalmente si staccò, la voltò e le venne sul volto.
La scena era finita; il cameraman ed i fotografi si ritirarono. L’attore si stese sul letto, sudato e sfinito. Ancora in erezione. Una bomba queste nuove sostanze. Lei corse nel camerino, si pulì il volto e la vagina con delle salviette di carta e si rivestì. Corse fuori della sala da gioco e corse fino a che non trovò un taxi che la riaccompagnasse al motel.



Pianse per tutto il tragitto e, una volta giunta nella stanza, si levò i vestiti e si ficcò sotto la doccia.
L’acqua scorreva calda sul suo corpo.
Fu una doccia lunga, lunghissima. Quando uscì si guardò allo specchio, iniziò a pettinarsi i capelli e riprese a singhiozzare. Si sentiva veramente di merda. Svuotata.
Uscì a comprare una bottiglia di whiskey e delle birre, poi tornò al motel. La stanza era veramente squallida, triste e deprimente. Posò le bottiglie sul tavolo. Sola. Quella notte bevve e pianse, pianse e bevve. Il suo grande sogno sembrava tramontare…sembrava un’illusione così sciocca, così…così…
Si svegliò che il sole era alto;  aveva un gran mal di testa e lo stomaco bruciava. Prese un’aspirina, raccolse le sue cose e lasciò il motel. Posto del cazzo.
Salì in macchina e mise in moto, partì. Accese la radio, che in quel momento stava passando la sua canzone preferita. La sua canzone, quella dei suoi sogni e dei suoi viaggi in macchina…aveva un suono diverso, era come una voce che non voleva sentire…una voce che le faceva male.
Si fece coraggio e guidò fino agli studios per ritirare il suo denaro. Fu accolta con estrema indifferenza; il manager la fece firmare e le mise in mano l’assegno senza nemmeno salutarla, poi la liquidò alla svelta. Era impegnato.
Nel parcheggio incrociò delle ragazzine; erano lì per un provino. (La macchina tritacarne non si ferma mai).
Lasciò la Valley e guidò per ore attraverso il deserto, senza meta e senza musica.  Trovò un motel e si fermò in una rivendita a comprare birra, whiskey e sigarette.
Alla deriva.
Il filmato fu un successo in Internet, con record di visualizzazioni in molti siti per adulti. Contrariamente alle aspettative degli esperti degli studios, il volto sofferente di quella giovane attricetta e le sue lacrime avevano attratto una moltitudine di spettatori di qualsiasi età. Il tam-tam fu enorme e rapido nella comunità dei pornofili. (La pietà del mondo era morta assieme a Dio).
Intanto lei continuava a vagare in balia del suo malessere, sola e senza idee, senza risposte, come una sonnambula. Una sera un cameriere la riconobbe tra i clienti del fast food dove lavorava. Lei uscì di corsa, come una fuggiasca.
Dopo qualche giorno fu la volta di un benzinaio..
Il manager provò a contattarla per una nuova offerta.
Non rispose.


mercoledì 9 marzo 2011

BISOGNO PRIMORDIALE




Man  Ray - Marquise Cassati

(anche nel suo salotto era primavera)

Mosche appaiate,
orgasmo segreto d’insetti
e gatti in calore lenti

Spine inserite con cura,
il jack deve entrare
là dove c’è scritto input

Spore sparse dagli alberi
in fiore,
persone che si accoppiano
gemendo nel vuoto
delle stanze chiuse

La forbice taglia la carta,
dalle tapparelle abbassate
lame di bagliore filtrano dentro,
corpi nudi in controluce.

giovedì 3 marzo 2011

COME IL CURRICULUM CHE NON SCRIVERAI MAI (PARTE 2)









Quell’ingresso aveva qualcosa di familiare nonostante fosse la prima volta che ci dava un’occhiata attenta, con la luce del giorno. C’erano foto di famiglia. Alle pareti un attestato di vendita di una moto d’epoca e due stampe in bianco e nero di Parigi; manco a dirlo la basilica del sacro cuore di Montmartre e la Tour Eiffel.
Una foto di lei da bambina che sorride sulla spiaggia, le sue labbra pronunciate già in fiore, gli occhi chiari illuminati dalla luce estiva solo un po’ sbiaditi per via della stampa dal rullino. Era proprio carina, pensava. E’ un peccato dopotutto mandare tutto a puttane come al solito. Ma bisogna.
Si stava perdendo ad esplorare i ninnoli di casa quando guardò l’ora sull’orologio da tavolo e si rese conto che doveva muoversi. Erano le otto e mezza. Era tardi. Doveva correre a prendere Fred.

S’erano accordati la sera prima, quando se l’era telata in fretta e furia da casa di Aurora, lasciandosi alle spalle tutta quell’aria noiosa che s’era creata a quella benedetta cena fatta tutta di discorsi imperniati sulla retorica da studentelli pusillanimi di filosofia che citano Marx a colazione e si tengono le chicchette su Heidegger per le cene fra colleghi in modo da dare almeno l’impressione di essere belli svegli o comunque darsi un tono con i presenti. Capite da soli che a sciorinare stronzate su Nietzsche non gli è mai riuscito di scopare proprio a nessuno eccettuati forse i casi di piccoli capetti della rivoluzione di ogni epoca; tipi infimi con le mani lisce e tanto buontempo. Nicola sapeva bene questo, conosceva tutti i nomi dei capetti-altern-collective del suo tempo e nella sua testa s’immaginava che perfino il buon Karl avrebbe messo fine a quella sfilza di conversazioni fondate sul niente con un risoluto pugno sul tavolo chiedendo silenzio e un altro bicchiere di buon vino renano.
Ma solo gli stronzi c’hanno i megafoni in mano; la maggior parte degli uomini con le palle se ne va avanti a testa bassa. E non pensava affatto alla gente perbene, quella non c’entra, avere le palle non ti fa necessariamente essere una persona rispettabile. Direzioni. Nicola s’era incantato nel piccolo atrio a pensare, lento, nonostante l’ora.

Il suono di un colpo di clacson che era filtrato dalla strada attraverso i vetri del balcone del soggiorno lo aveva fatto riatterrare nella realtà.
Afferrò da terra la borsa e il giaccone appeso, corse di nuovo attraverso il corridoio verso la camera, gettò tutta la roba per terra. Appoggiando il foglio ad una mensola, per usarla come piano per appoggiarsi a scrivere fu investito dai rimorsi – Che cazzo le scrivo ora – fissava ancora le decine di foto alle pareti, nel momento in cui la sfera della penna aveva toccato la pagina ogni dubbio era scomparso. Bisogna.
Le scrisse un bigliettino sommario, qualche decina di parole veloci in stampatello senza pensare - è stato bello – senza grande passione – ho ancora i tuoi succhi su di me – etc, stronzate – meglio se non ci vediamo più - .

A Nicola lei piaceva, ma non voleva prendersi lo sbattimento di sceglierla. Era piccolina e dolce, una ragazza da paura. Era stato proprio incantevole aver passato la notte assieme. Ma perché prendersi la briga di farlo accadere ancora? Era perfetto così.
E in quel momento non era in grado di tirar fuori altri pretesti quindi chiuse il foglio in quattro e ci scrisse sopra “per S.” posandolo sulle coperte sfatte del letto a due piazze, ci appoggiò affianco anche tutti i cioccolatini che aveva trafugato da casa d'Aurora, saranno stati una quindicina in tutto.
Ci sono mattine nelle quali non ti alzeresti mai dal letto, e quando stai quei due minuti in dormiveglia ancora sigillato dentro le lenzuola, la sveglia che suona monotona il suo canto di condanna, e pensi alla buone ragioni che avresti per startene lì l’intera giornata e poi finisci a convincerti che i doveri da sbrigare sono una delle cose che ti fanno sentire meno l’inutilità di questo mondo e allora scendi dalla giostra e metti i piedi a terra (e magari fuori piove) ma vorresti davvero poter girare i tacchi e rificcarti sotto le coperte finché tutto questo delirio non sia finito e poi ci sono altre volte nelle quali invece vorresti sgattaiolare via dal materasso molto prima che il sole si sia alzato, prima che la notte sia finita; toglierti dai coglioni al più presto e non dare spiegazioni, trovare la forza di farlo mentre lei dorme ancora, ma ci vuole manico per andare fino in fondo (e in genere il fatto di essere ancora mezzo sbronzo di gin tonic non aiuta molto a portare a termine con successo un’operazione del genere), devi contare la comodità del giaciglio e la stanchezza.
Il più delle volte ti giri dalla tua parte, la senti che dorme e pensi – fanculo non mi alzo, al buio inciamperei sicuramente fra le sue scarpe, e poi dove ho lasciato le chiavi, e poi sono le quattro etc.. – trovi migliaia di ragioni che ti tengono steso lì, così punti la tua sveglia alle sette e ti metti a dormire e preghi dio di essere capace ad alzarti la mattina che viene e, se proprio ti dovesse andare di lusso, di riuscire a chiuderti la porta del suo appartamento  alle spalle senza averla svegliata.




  

COME IL CURRICULUM CHE NON SCRIVERAI MAI (PARTE 1)






Lo specchio del bagno, punteggiato sulla superficie di schizzi d'acqua asciutti, restituiva l'immagine del suo volto. Al mittente. Quel naso balengo; i tratti tutti asimmetrici, duri, come gli aveva fatto notare una volta anche C. , durante una stupida conversazione al caffè. Gli occhietti piccoli & rossi. Era mattino.
Sulla sua sinistra la finestra appannata, zigrinata ed opaca. Vetri per non vedere. Fuori il parcheggio, giù in strada. E il freddo solare d'inverno.
Gli occhi piccoli di sonno, rossi. E quei capelli neri acconciati un fuori moda, "taglio geometrico" (quello sì, tutto giocato sulla simmetria) 20 € da Denis, il parrucchiere checca sotto casa.
Il petto semi rachitico, magro, leggermente in dentro e quel ventre che gli ricordava tanto quell'aspetto da uccellino bolso che aveva Coppi in una delle crono al Tour de France del 1949, in quel documentario visto su Rai Storia alle 3 della mattina una notte quel Novembre quando aveva avuto l’influenza intestinale. Si, si, se lo ricordava bene. Quel senso di tristezza che ti viene quando ti ritrovi a renderti conto di somigliare a cose o persone con le quali non avresti mai pensato di avere a che fare.  Un sentimento simile ad una rassegnata ed improvvisa accettazione che ti fa riconsiderare te stesso alla luce di quella rivelazione. Spiazzante.

<<C’hai la faccia uguale a quello lì, come si chiama? il frontman dei dei dei.. come si chiamano oddio..>> -  sempre C. quella volta al bar. O forse era stata qualcun’altra?
Non ricordava. Vero è che ci diciamo in continuazione parole inutili, in fin dei conti che motivo c’è di ricordarsele tutte?

Quelle conversazioni che rassomigliano a manetta ai documentari delle programmazioni notturne.
Le solite romanticherie nostalgiche all'italiana. Le solite storie. Le dispute Bartali - Coppi. L'asse Roma-Berlino-Tokio. Gli anni di piombo. La tradizione del bel canto, e tutti quei fatti che hanno anche solo sfiorato la vita del belpaese. L'invenzione giornalistica della dicotomia Beatles - Rolling Stones. Sono veramente sempre quelle.

Quel suo torso pallido e quasi glabro. E fatto male. Le costole si potevano contare, e più giù l'ombelico, gli slip neri. L’immagine riflessa finiva lì. Poi il lavandino. Le piastrelle bianche lucide; attaccati affianco l'armadietto adesivi di dinosauri con i loro nomi sotto. Diplodoco.
Quattro spazzolini e un dentifricio per bambini: si consiglia la supervisione di un adulto per evitare l’ingestione del prodotto, sul dorso del tubetto il disegno colorato di un topo dagli incisivi titanici e sfavillanti che sorride. Si osservava, abbozzando sulle labbra un sorriso, scorrendo con gli occhi il suo corpo. Sbadiglio. Sembianze di uomo giovane.
Aveva l'alito da coperte e gin tonic. Quel gusto acido dolciastro che ti resta sulla lingua una giornata intera.
Prese il tubetto spremendo fuori una punta di dentifricio sull'indice, lo passò sotto l'acqua per lavarsi la bocca.
Lavarsi i denti col dito. Da veri duri.

Cantava , passandosi il dito in bocca, <<no fun my babe no fun, no fun to hang around, freaked out for another day, no fun my babe no fun, no fun to be around, walking by myself, no fun to be alone, no fun my babe no fun...>>.

Aveva in testa quel pezzo, e aveva in testa quel vecchio video datato 14 Gennaio 1978; quella versione rifatta dai Sex Pistols al Winterland di San Francisco; la vecchia roccaforte hippie, capite, con tutti i crismi del caso, e il resto. Ora, un avvenimento è leggendario non perché uomini straordinari compiono azioni straordinarie in senso assoluto, niente al mondo è assolto da condizioni, ma perché secondo un determinato contesto un’azione ordinaria si carica di un significato potente, e quest’azione passa attraverso uomini a caso. Potrebbe anche essere il primo stronzo al quale non dareste nemmeno da accendere. Capite che il fatto che quel gruppo di balordi inglesi arruffati e incazzati col mondo intero partisse per fare un tour in America e facesse tappa proprio a ‘Cisco per suonare inni che sono l’incarnazione della morte totale dell’estate dell’amore e della sua generazione è un evento che è davvero eccezionale. Talmente banale e scontato da immaginare che fa quasi tenerezza.
Siamo una specie che ha una cura così maniacale nel tenersi addosso le proprie pene.  Gelosi a tal punto del proprio dolore che lo si esibisce davvero come fosse qualcosa che appartiene a noi soltanto. Come fosse l’ultima cosa reale che teniamo fra le mani; ci aggrappiamo ad essa con tutte le forze che abbiamo.
John Lydon, in ginocchio sul palco, e la sua voce sempre più strozzata sul quel "no funnn" fino a diventare quasi una specie di singhiozzo afasico, la distorsione merdosa della chitarra "no funnnn" il basso di Sid Vicious fuori tempo con la batteria "no funnnn", ad un certo punto John smette di cantare e fa: <<che palle, perché dovrei tirarla avanti?>>, poi guardandosi attorno, solo come un cane, non guarda la folla, né la band alle sue spalle. Guarda nel vuoto.
Come se stesse aspettando la fine. Come se stesse prendendo tempo perché sa che gli sta venendo incontro la morte; dalle smorfie di quel grugno stranito si capisce che  realizza in quel momento, proprio in quel punto del pezzo, che non c'é altra via di fuga da tutta quella merda che la fine.
E si capisce che non si sta affatto divertendo.

Nicola cantava. Col dito in bocca. Riflessioni. Connessioni logiche governate dal rapporto causale. Ci sono momenti in cui riesci a vedere la fine in diretta.
Ci sono momenti in cui riesci a sentire che la fine ti scivola sulla punta delle dita: presente, silenziosa, strisciante. Sui polpastrelli & sulle palpebre. Che ti spia. E ci sei dentro.
E’ una specie di smania.

Sputò dentro il lavello la schiuma, sciacquandosi la bocca con l'acqua fredda; passò più volte la mano sulla vasca di ceramica per togliere la saliva spumosa dal lavandino.
Ancora un’occhiata alla sua figura dentro lo specchio, restava ancora lì, passandosi le mani fra i capelli, dandosi una stropicciata al viso, sbadigliando.

Tornò verso la camera di lei. Si sbrigò a cercare i jeans, la camicia, i calzini sparsi a terra in mezzo ad altro casino. Coprirsi velocemente. Gelida nudità, freddo.
Vestendosi diede un occhiata più attenta a quella cameretta incasinata dal sapore ancora vagamente prepuberale; da piccola donna in boccio. Restò a scorrere le foto appese ovunque sulle pareti, abbottonandosi gli ultimi due bottoni dei jeans. Da ultimo le scarpe, decisamente troppo estive. Decisamente troppo bucate. Aveva uno strano dono Nicola, riusciva a distruggerne un paio al mese così come niente.

Aveva addosso quel mal di testa odioso e familiare. Postumi. Gola arsa e budella urlanti Ricomporre le tessere con precisione.
L’ordine cronologico è così prezioso la mattina dopo. Hai la scatola nera da qualche parte, non sai dove, e anche una chiave di lettura solo che spesso fai una fatica bestia a trovare la porta.  
La cena coi compagni di corso. Con i colleghi! La corsa da lei nella notte, l’una e mezza; le due forse?
Continuava ad osservare i cristalli di tempo fermo attaccati alla parete, stiracchiandosi. Lasciarle qualcosa di scritto. Corse verso il corridoio a cercare la sua borsa. La trovò sul pavimento dell’ingresso, sotto la sua giacca nera appesa all’attaccapanni da muro, la tracolla in pelle di montone australiano pagata l’ira di dio su internet. Rifiniture scadenti. Un classico degli acquisti in rete, la relatività della dicitura “come da foto”. Cercò fra i quaderni una penna e un foglio di carta; dentro il casino della borsa trovò anche dei cioccolatini che aveva preso, solo per il gusto di farlo, la sera prima a quella fottuta cena; neanche gli piacevano i ferrero rocher.   












mercoledì 2 marzo 2011

TU SEI PAZZO, DISTRICT OF COLUMBIA!


Notte di Bronzo.

Nessuna redenzione. Nessun riscatto. Nessuna possibilità. Docili libellule  sfioravano teneramente lo specchio cerebrale che Eugene cercava inutilmente di acquietare da anni, questi insetti leggeri lo rendevano pesante e muto, erano queste che lo rendevano così sconfinato e sconfitto da tempo.

Queste tornavano crudeli a posarsi sull’ impercettibile pellicola  che abbracciava il liquido, disegnando cerchi e fronti d’onda.

Libellule a miliardi scendere nel suo cervello; nugoli; valanghe appoggiarsi e tornare in volo armoniose per restare dentro la sua testa e carezzarlo; carezzare il suo interno.

Notte.
Sigaretta fuori al freddo. Solo.
Pisciato dentro il lavandino prima d’uscire di casa. Una canzone in testa. Io sono il tricheco? Seduto su un fiocco di mais ad aspettare la macchina che doveva venirlo a prendere.
Un tunnel di lampioni persi nella nebbia.
21 dicembre. Fra due anni svaniremo, se tutto va bene.
Le ore di sole in crescendo. Le giornate saranno più lunghe di qui in avanti.
I commentari ai dialoghi platonici, la nausea di A.

Nessuna possibilità. Nessun riscatto da pagare. Nessun rapimento. Increspature sull’acqua da registrare. Le azioni sono cerchi d’onda. Era tutto pessimo. Lei stava meglio di lui.
“Ha il cuore forte”, avevano detto i dottori. Una canzone in testa. Scu.. Scusi.. la direzione per la piazza?

Buio.
Sigaretta appoggiato alle porte della cecità. Solo. Solo non volevo finisse così. E’ un insulto.

Vi diranno. Vi diranno. Quel che vi diranno non ha nessuna importanza. Nessuna fottuta importanza. Il Messia coprofago autoingoiantesi. Vi diranno. Vi han detto. Quello che vi han detto non conta nulla. I segreti di stato e le corporazioni. Il potere economico tradotto in potenza legislativa. Le verità sulla biografia di W. Shakespeare.

Eugene soffiava in alto il fumo della cicca che si scioglieva con il vapore acqueo che condensava nell’aria torbida di pianura.
Gli avevano detto. Quello che aveva letto.
Nel referto riguardante le cause della morte di suo padre era tutto scritto chiaro. Infarto, ipertensione. Morte per attacco di cuore. Una notte d’Autunno. Una notte limpida e fresca, d’argento.

Le ragioni ufficiali accennano appena la verità. I fatti nella loro integrità.
Sapeva d’averlo ammazzato lui. Gocce di giorno.
Pisciato nel lavandino della lavanderia prima d’uscire. Come usava fare lui.
I segreti.
Restato tutto il giorno steso sul divano verde. Come usava fare lui.
Fumata una dose di brown sugar. Questo papà non lo faceva. Non l’avrebbe mai fatto.

Sì. Sono molto lontano da casa.
Sì. Sto solo male. Ma è solo un periodo. Passerà.
Si aggiusterà tutto. E invece. Nessuna possibilità.
Le ultime parole che suo padre gli aveva rivolto erano state queste: <<Tu sei pazzo, dio can!>>.
Ma non merita d'esser giudicato per questo.



giovedì 10 febbraio 2011

TEMPESTA







Joseph Turner  "Snow Storm"



Foglie gialle corrono
lungo il torrente d’asfalto
e spore verdi in onde
si espandono a raggio

fogli di giornale nell’aria
le case son uomini soli
di contro la notte resistono
ai turbini che piovono

rivoli bianchi son fulmini
disegnati dolcemente dalla terra
sulla lavagna senza fine
potenti scariche d’elettricità

mi bagno ma rido inseguendo
quel punto segreto ed incerto
dove finisce l’asciutto ed
inizia la tempesta.



martedì 1 febbraio 2011

ARMONIA

Cadono gocce, rintoccano dolci,
il ritmo del mondo risuona
nei salici,
e sulle foglie,
e nelle doglie
delle donne incinte,
e tutto ha un senso
eppure dovunque il segreto che dorme
si risveglia
dove finiscono le mie mani.





domenica 16 gennaio 2011

LA SETE


Appeso al bancone della vineria
un uomo beve l'ultimo sorso dal bicchiere, 
getta fuori un pugno di monete;
fa un sospiro pesante
all’etanolo, lo spirito gli esce dalle labbra
come a uno sputa fuoco.

Sorride, zitto, all'oste
uscendo con un andatura lenta
da desperado, grattandosi il didietro;
scaracchiando tosse catarrosa, quel
barbamatta aria da marinaio.

Esce in strada a cercare cosa sia
quella sete che si
ritrova ogni momento
attaccata al culo.





venerdì 14 gennaio 2011

FUOCHI D'ARTIFICIO (2)




(MEXICAN GRAN PRIX PART II)





(come per la prima parte, fate partire il pezzo e buona lettura..)




Le cinque circa.
Anche Vegas e Santa Fe rimasti dietro di loro.
Un fulmine rosso ingoia miglia.
All’orizzonte Albuquerque; dove l’interstate 25 si incrocia con la 40esima direttrice est-ovest.
Il grande sole, sempre più rosso sopra i grattacieli della grande città a cavallo del Rio Grande, si stende sui capannoni delle fabbriche di materiale elettrico e sulle avenues addobbate, pronte per la festa. Un unico ciclopico sole, per un continente sterminato.





Poi giù, ancora giù, lanciati verso sud.
Verso l’ora del tramonto sono già a Las Cruces. Respiri veloci. Furia rossa.
Niente tempo da perdere.
La Plymouth Fury brucia nella luce del crepuscolo, scintilla di fuoco.
All’ imbrunire le pianure del New Mexico si assopiscono docili e meravigliose; ululati di cani nella luce tenue e diffusa che si affievolisce. I fari accesi puntano verso il “Mexican Border”  a 30 miglia da loro.

<<Baby, oh , baby, ci siamo.>> - l’ansia sale.  Gocce di sudore colano dalla fronte di J. più che nelle ore di solleone.

Baby K. apre un altro pacchetto di sigarette, non smette di fumare, il vento si fa più mite; pelle d’oca sulle sue belle braccia bianche di seta. Seni turgidi. Anima inquieta che la notte risveglia. E chiama verso sé.
Tira fuori il sacchetto d’erba dalla borsa. Fuma. Per calmarsi.

<<Hey dai un po’ qui, fa’ fumare anche me.>>

Fumano. J. passa una mano sulle cosce di baby K. carezzandola attraverso i jeans, senza mai staccare l’altra dal volante.

<< Hey,una volta passato il controllo della dogana americana è tutto a posto, la polizia messicana ci lascerà passare; in fin dei conti è solo una questione di status..bah! I poliziotti di lì..ancora più scarafaggi che i piedipiatti made in Usa. “Ya Ya, Yankee Yankee!”, dicono, ma alla fine sanno che porti dentro il contante, che spendi, puoi entrare anche col corpo defunto della puttana di loro sorella basta che gli allunghi qualcosa per la famiglia o le troie. – si passa una mano per togliersi il sudore che gli imperla la fronte - Prepara i documenti e lascia parlare me, per il resto sai già cosa fare se ci dovessero essere complicazioni d’accordo, baby K.?>>

<<Yep, rilassati baby.>> - Fa un cenno con il capo; tira forsennatamente dalla sigaretta ravvivando la cenere incandescente della sigaretta.

Eccoli.
Scivolano lisci direzione Messico. Que viva Mexico!
Stelle in ascesa. Liquide.
Arrivano alla dogana e rallentano fermando la macchina in prossimità della sbarra del posto di blocco.

Quattro poliziotti soltanto; due in guardiola e due in piedi, appoggiati alla stanga abbassata, pronti a  controllare i passaporti.
La Tv accesa dentro al baracchino trasmette in diretta le celebrazioni, le parate dalle varie città, i cieli americani pronti a far tuonare la notte con i fuochi d’artificio. Ora sono in collegamento da New York.  I due tizi, annoiati, la guardano, svogliati. Si grattano. Fottuto turno di lavoro festivo. Voglia di far festa pure loro. Patriottici, al servizio per la sicurezza dell’intero paese.

Gli si fanno avanti i due agenti di polizia. Festività. Personale ridotto. Voglia di far fiesta. God Bless America. In uniforme a recitare la solita pagliacciata. Rituali.
Favoriscono i documenti ai due agenti in piedi tesi verso l’abitacolo  della macchina.

<<Sera agente, prego..>> - strappa i documenti di mano a baby K. 

Lo sbirro legge a mente.  

<<Daniel Burke nato a…etc..etc e Dorothy Ross nata a..etc etc…>> - l’altro punta loro addosso una torcia.
Foto rispondenti. Date plausibili. Documenti falsi in ogni caso, tutto a posto.
Rilassati. Calmi. Lucidi.

<<Anche il libretto di circolazione, prego..>> - baby K. tira fuori dal cruscotto i documenti dell’auto, falsi anche quelli, e li passa di mano a J. che li consegna all’agente. Tutto in regola.

<<Grazie Mr. Burke, posso sapere le ragioni del viaggio?>> - chiede il più intraprendente dei due, tenendo ancora i loro documenti in mano, carezzandoli fra pollice e indice.
L’altro gira intorno all’auto e si ferma dal lato del passeggero appoggiando una mano al tettuccio della macchina, osserva baby K.

<<Piacere agente, puro piacere, sto portando la mia ragazza a fare una piccolo viaggio in Messico per le vacanze..>>

<<Sì, fa bene! Vada a fare un giro sulla costa atlantica a Poza Rica se ha l’occasione di passarci, è splendida, merita davvero una puntatina..>>
<<Certo agente, grazie del consiglio, che ne dici baby K. amore, ti piacerebbe?>>
<<Oh, si potrebbe…adoro l’oceano..>>
<<Vuole sapere altro agente?>>
<<Si, veda..non è per fare il maleducato ma devo chiederle di lasciarmi guardare dentro la borsa sul sedile posteriore,  sa, è una questione di principio celebrazioni o no noi si deve fare il nostro lavoro, per la patria..>> - la biondina sorride allo sbirro che sta dalla sua parte, appoggiato alla Plymouth, chinato verso il finestrino. Visino d’angelo spacca cuori.

<<Certo, non c’è nessunissimo problema..prego agente, come fosse a casa sua..>>

Il piedipiatti fa un cenno d’approvazione. I due dentro la guardiola sono ancora assorbiti dal televisore. Luci al neon. La notte nera e selvaggia avvolge ogni cosa.
Respiri veloci. Tutto d’un fiato. La determinazione. Seriamente, non ci si può pensare su più di  tanto. Mai abbassare la guardia.
Gli danno neanche modo di prendere fiato, aprire la portiera, mettere il naso dentro e guardare in quella fottuta borsa.

Gli sbirri hanno neanche il tempo di estrarre la pistola d’ordinanza che i due hanno già tirato fuori i ferri carichi da sotto i sedili anteriori e sparano all’impazzata, massacrandoli entrambi con due colpi a testa in pieno volto, così, a brucia pelo. Lisci. Hai capito la biondina. Sangue che schizza dappertutto, fiotti caldi sulla carrozzeria e sui vetri della Plymouth Fury, sulla vetrata del baracchino, sulla strada e sulle loro facce; sul bel visino liscio di lei e sul naso da pugile di J.; i corpi riversi a terra colano broda rossa sull’asfalto, ammazzati.
Due schegge folli davvero.
Baby K. non smette di sparare un attimo, svuotando il caricatore in direzione della guardiola, nasodapugile J. mette in moto e sgommano via; danno neanche il tempo agli altri due di intervenire. Neanche il tempo di vedere la targa. Di guardarli un istante bene in faccia o di estrarre le pistole per rispondere al fuoco che sono già spariti nel buio. Una maledetta furia rossa che corre attraverso la frontiera

<<Woo! Ah, ah baby!!>> - fa J. urlando. Pazzo.

Lei ride isterica, si leva il sangue dalla faccia lustrandosi accuratamente il visino con un asciugamani e s’accende un’altra sigaretta.
Corrono all’impazzata, nell’aria più fresca della grande notte; ancora un miglio in direzione della dogana messicana. Neanche il tempo ai due di avvisare i colleghi oltreconfine, più avanti.
Arrivano al posto di blocco del casello, quattro guardie anche lì. Facce da messicani; fanno loro cenno di arrestarsi agitando le mani.
Si accorgono che non hanno nessuna intenzione di dargli retta più di tanto; l’auto lanciata a tutta velocità sfonda la barriera ululando di rombi e ferraglia che si scontra con ostacoli solidi senza frenare e investendo uno dei quattro gendarmi che non fa a tempo a schivare quella corsa folle. Scrocchiare d’ossa sotto le gomme. Due degli sbirri sparano alle calcagna della macchina che si allontana volando attraverso la frontiera gridando e dibattendosi veloce di furore puro. Trans agonistica.

J. sbatte le mani sul volante aspirando le guance ancora sporche di sangue fra le mascelle, ritraendole fra le due linee di denti. I suoi occhi splendono.

<<Che divertimento baby, che divertimento..Oh oh, torniamo indietro e rifacciamolo!>> - scherzava soltanto.. ma si sentiva esattamente come doveva essersi probabilmente sentito Richard Ginther tagliando il traguardo per primo nel grand prix del 1965 a Città del Messico dopo aver stracciato ogni record precedente. Eterno.

<<Oh J. let’s go! Que viva Mexico! Ah, Ah! Wooo!>> - urla come una pazza all’immenso cielo nero.

Le undici e qualcosa della notte.
eccoli in Messico. Bienvenidos en Mexico. Echi di fuochi d’artificio in lontananza oltre la frontiera.
Una furia rossa che corre lungo il serpente americano. Sparati sulla lingua silenziosa d’asfalto che conduce a Juárez. Eccola lì, la città, sul filo dell’orizzonte, con le sue luci sfere di chiarore che irradiano verso l’alto bagliori e fumi, risa e grida e pianti.
Fermano la macchina sul margine della strada puntandola verso il pendio boscoso e ripido più in basso, a due miglia fuori dalla superstrada verso la città. La notte messicana vigorosa e tersa popolata da suoni d’animali selvatici notturni e riverberi d’arcaici riti sacrificali avvolti di mistero.

<<Lasciamola qui, prendiamo la borsa, il resto della roba e andiamo, andremo avanti a piedi.. e passami un asciugamani pulito devo togliermi il sangue dalla faccia prima che si secchi, veloce>> - J adesso parlava a baby K. lentamente, per non tralasciare niente.

Baby K. gli passa l’asciugamano dopo averlo bagnato leggermente con dell’acqua dentro una boccia di vetro, senza parlare; J. si pulisce, emette sospiri lenti. Sono zitti ora. Ansia che cala.

<<Lasciamo tutta la merda qui.. su, scendi, veloce baby K.>> - nessuno nella notte, benedetto buio cieco.

Mette la folle, prendono la borsa dal sedile e il resto delle loro cose nel portabagagli, smontano lestamente.

<<Hey baby sono sporco da qualche altra parte? Non mi riesce di vedere nulla..fa un favore..>> - si è tolto la camicia sporca e ne ha presa un’altra dal borsone che stava dentro il bagagliaio.
<<No, sei pulito, aspetta però.. – gli leva uno schizzo di sangue rappreso dall’angolo della bocca, passa il pollice sulle sue labbra e lo bacia – a posto così J… - gli carezza le spalle.
Si toglie la maglia sporca anche lei restando a torso nudo per cambiarsi.
J. le osserva i seni succosi, la vita ben fatta e il ventre sinuoso, attraente.  E’ proprio bella.

<<Sei una dea baby, una piccola dea davvero baby K.! Tieni, qui ci sono i nostri nuovi documenti e altre cose che ci servono per il viaggio, stacci attenta..>> - le dà il borsone in mano.

<<Toglimi una curiosità J., perché hai lasciato questa cazzo di borsa sul fottuto sedile? Se l’avessi sbattuta nel retro magari gli sbirri non ci avrebbero chiesto niente..>>

<<Vuoi la verità baby? Volevo che mi dessero una scusa per sparare.>>

Eccoli. Cambiati. Puliti. Nuovi.  
Si accendono tutt’ e due una sigaretta. Si sorridono silenziosamente. La notte messicana soltanto, a fare da spettatrice.
Spingono assieme la favolosa Plymouth Fury ‘58 verso la scarpata che scende ripida scivolando giù in mezzo alla boscaglia, l’auto fila giù per il dirupo intricandosi di rampicanti e vegetazione, giù verso il fitto della macchia. Uccelli disturbati dal casino dell’auto che corre giù per il pendio si alzano in volo. La splendida furia rossa si ferma solo molto più in basso dentro un intrico di mesquite e agave. Fine della corsa.  Addio meraviglia.

Nel frattempo le risonanze dei fuochi d’artificio che venivano dal di là del confine s’erano fatte sempre più forti. Migliaia di migliaia di fuochi illuminavano il cielo con colori accesi, tuonavano nelle tenebre come colpi di pezzi d'artiglieria celebrativi. Uno spettacolo incantevole di stelle artificiali che si dissolvono in fumo.
Erano restati a guardare quello splendore che veniva dall’alto del cielo per un po’, stretti assieme. Guardando a nord potevano vedere l’intera volta celeste esplodere e tingersi di fiamma da un capo all’altro della federazione.


<<E’ l’ora di andare baby, giriamo i tacchi..>> - J la prende stringendola sottobraccio, una borsa per uno, s’incamminano in direzione del sud nella notte illuminata dai fuochi, pieni di fiducia e di speranze camminando lungo la strada verso il chiarore promettente della città.
<<Andrà tutto bene piccola, vedrai, andrà tutto bene...>>







“Our Second President would be proud that on July Fourth more fireworks are set off than any other celebration in the world.”
[Orgogliosa cittadina statunitense; commentando le parole di John Adams]





giovedì 13 gennaio 2011

FUOCHI D’ARTIFICIO




(MEXICAN GRAND PRIX PART I)





"I believe that it will be celebrated by succeeding generations as the great anniversary festival... it ought to be celebrated by pomp and parade, with shows, games, sports, guns, bells, bonfires and illuminations from one end of this continent to the other..."
[John Adams, secondo presidente degli USA; scrivendo a sua moglie a proposito della giornata dell’indipendenza] 









(fate partire il pezzo e ascoltatelo, buona lettura..)








Domenica 4 Luglio 1971.
Circa mezzogiorno.

Una furia maledetta corre lungo il serpente americano. Due tipi: un uomo ed una donna; non più di 30 anni a testa, lanciati a velocità folle dentro una Plymouth Fury rossa.
Le dita acuminate del sole alto sul confine che corre fra Colorado e New Mexico picchiano la piana desertica come lingue di fuoco carezzanti la polvere. Cocenti. Un vento rovente soffia da sud.
Le unghie di lei, smaltate di rosso sgargiante, battono nervose sul cruscotto. A ritmo. Mastica la gomma e prende bocconi d’aria emettendo sospiri veloci. Sbuffa.
Un caschetto biondo incornicia meravigliosamente quel suo viso delicato che guarda fuori dal finestrino attraverso gli occhiali da sole. Indossa un t-shirt bianca, senza reggiseno, e dei jeans scoloriti con uno strappo aperto all’altezza del ginocchio.
L’orizzonte liquido tremola seguendo i movimenti delle correnti d’ aria rovente che evaporano dalla superstrada; ondeggia sinuosamente davanti la macchina in corsa.
Il respiro rapido del giorno che si contrae trattiene le ruote incollate alla strada . La smisurata desolazione del continente americano si scioglie sul margine della highway che fila dritta in direzione sud.

La Plymouth Fury brilla irrorata di calore, lucente, sfrecciando lungo l’interstate 25.
Liscia. Vermiglia. Veloce.
Mangiandosi miglio dopo miglio la strada.
Come fila.

Lui è alla guida. Cicca in bocca; braccio fuori dal finestrino. Ha addosso una camicia a quadri verdi e bianchi che porta con le maniche arrotolate lungo le braccia abbronzate, semiaperta sul petto; una testa di capelli chiari e folti mossi dal vento che entra dentro. I grossi occhiali da sole appoggiati al naso camuso da pugile. A goccia. Tira dalla sigaretta velocemente. Labbra piene. Nervoso. Gesti sicuri. La mano che tiene il volante è ferma; strafottente. Ha un sorrisino sarcastico stampato sulle labbra mentre assaggia l’orizzonte d’asfalto avanti a sé. Tira qualche occhiata alla biondina al suo fianco di tanto in tanto. Solo strada.
Respirano velocemente. Bruciano.
Sono in corsa senza sosta da più di cinque ore.
Cristo come filano.

<<Finalmente ci lasciamo alle spalle tutto, baby, ce la faremo vedrai!>>
<<Dobbiamo stare attenti J. , ho come il presentimento..>>
 << Tranquilla baby, andrà tutto bene, deve cazzo, ora sta un po’ zitta e ricontrolla i documenti, cazzo.>>

Respiri veloci. Tutto d’un fiato. La decisione. Seriamente, non ci si può pensare su più di  tanto.

Come fila la Plymouth.
Una saetta.
Dietro di loro Denver e Colorado Springs; e Pueblo. Le Rocky Mountains.
Ai lati della strada, sulla Main Street di Trinidad, i caffè colorati e le tavole calde sono gremiti di gente. C’è aria di festa: folti gruppi di operai a giornata in vacanza e di perdigiorno trinca birra scherzano e bevono davanti ai drug store in stile pueblo revival.
Chicani e tipi bruni scuri di sole per il lavoro nei campi o alle trivelle ad est di lì, facce da rednecks, facce americane.
Festoni e coccarde appesi in giro per tutta la città in occasione della festa dell’indipendenza. Tutto pronto per la grande celebrazione americana.
Una coppia di hippie fa l’autostop al margine della carreggiata. Lui in piedi, pollice fuori. La ragazzina, ben tornita con la carnagione chiara e un accenno di lentiggini sul naso, è seduta sui due zaini; ha occhi verdi e le si possono vedere i capezzoli attraverso la magliettina sottile. Seni acerbi.
I suoi capelli chiari si muovono con la brezza; ha l’aria stanca.
Filano come fusi oltre gli autostoppisti, superando quel piccolo esuberante centro abitato, via verso il sud.

La Plymouth sfreccia attraverso il confine. Welcome to New Mexico.
Poche nubi nel grande cielo turchese. Assoluto. Il braccio fuori dal finestrino. Gli occhiali a goccia.
Verso est le file di mulini a vento si stagliano sull’azzurro.

<<Mancano ancora cinque ore alla frontiera, dobbiamo correre Baby K., dobbiamo pestare sull’acceleratore.>>

Lei fuma sigarette una dietro l’altra, si sistema i capelli . Si accoccola al sedile, con i piedi fuori dal finestrino mentre riguarda i documenti da esibire alla dogana. Mani di donna in boccio.

<<Senti, c’è tutto. Non dovremmo avere problemi. Oh cazzo come sono eccitata!>> - tira fuori uno specchietto tondo dalla borsa e si dà una controllata al bel visino - <<Fermiamoci a mangiare. Ho fame, e devo pisciare, fa’ un favore J…>>

Sbatte le ciglia graziosamente, rivolta a lui, stringendo le mani giunte fra le cosce, dondolandosi leggermente, piega dolcemente il capo, tendendosi verso la  sua spalla destra, per convincerlo a fare tappa. Gli bacia il collo.
La ferma mettendole la mano in faccia.

<<Falla in corsa, non ho intenzione di fermarmi se non una volta attraversata la frontiera, ci siamo capiti baby?>>
<< Certo che sei stronzo.>>
<< Devo rispiegarti la situazione? Devo ricordarti cazzo abbiamo dentro quella fottuta borsa lì dietro? Sta zitta.>>



Filano. Di nuovo solo una distesa arida desolata e qualche abitazione di agricoltori di tanto in tanto.

<<Senti, devo pisciare, J. non continuare a fare lo stronzo ti prego..>>
<<Ok baby, alla prossima stazione mi fermo, ma solo perché devo fare il pieno. Lo stretto indispensabile e niente cazzate, bada!>>
<<Oh, grazie al cielo! Non ce la faccio più a tenermela.>>

Respiri veloci. Tutto d’un fiato. La decisione. Seriamente, non si può stare lì a pensarci più di tanto. Sarebbe da scriteriati.

Fermano la macchina ad una stazione in una località anonima fra Watrous e Las Vegas. La Vegas sbagliata. Terra fertile.
Alla pompa di benzina c’è un giovanotto dall’aria tarda. Fulvo e paffuto.

<<Fammi il pieno ragazzo.>>
  
Gli mette in mano le chiavi per aprire il serbatoio sorridendo, da dentro l’auto; lo fissa attraverso lo specchietto, osservandolo mentre armeggia con la pistola, la bionda scende a sgranchirsi poi appoggia il suo bel sedere alla fiancata della Plymouth che scotta dannatamente per il sole. Si sistema gli occhiali provocando il giovanotto che la fissa con la pistola salda in mano.
Il tardo finisce di fare il pieno. Bofonchia il prezzo piegandosi verso J. con una mano sulla fronte per proteggersi gli occhi dalla luce accecante del pomeriggio. Pagano e rimettono in moto.

<<Dai, mangiamo qualcosa, questa è l’unica sosta, poi te ne stai buona fino in Messico, ok baby?>>

Lei risponde con un cenno, e un bacio sulla guancia.
La allontana bruscamente.

<<Non sono in vena di baci baby, voglio portare il culo fuori di qui prima possibile. Veloce. Piscia, mangia e andiamo. Mai abbassare la guardia baby.>>

<<Pfff, tu e le tue menate da boxeur esaltato..>> - soffia la biondina.

Parcheggia la Plymouth fiammante proprio davanti la vetrina del road bar. Smontano, lui sputa a terra e prende la borsa dal sedile posteriore.

Entrano nella piccola tavola calda. Deserta anche quella come tutta la pianura circostante. Non un anima viva a parte un ciccione dietro il banco, una cameriera di mezza età e un ragazzo, anche quello dall’aria poco stimolata, che sta mezzo nascosto affacciato al pass della cucina. Conduzione familiare.
La TV è accesa e parla degli imminenti festeggiamenti che si terranno nella notte in tutto il paese per la festa dell’indipendenza. Ma non c’è aria di festa dentro quel posto. Non più di tanto.
Ordinano un paio di piatti di pollo fritto con patatine, acqua e due fette di cheese cake. Giusto il tempo di aspettare che il ragazzo ritardato frigga quel cazzo di pollo. Baby K. si fionda in bagno. Intanto che aspetta, seduto al tavolo da solo,  la cameriera porta a J. del caffè.
Mangiano in fretta e furia. Piscia anche lui dentro il cesso squallido che hanno tutti i posti che stanno lungo le strade.
Pagano, sorridono, escono. Non una parola a nessuno.

<<E buona festa!>> - fa J.  al grassone dietro il banco, uscendo.
Saluta attraverso il vetro scimmiottando un saluto militare, alzando il braccio con il quale tiene il borsone.

Di nuovo in macchina. Cicca. Braccio fuori.
Pomeriggio inoltrato. Ancora la strada.
Neanche l’ombra di polizia per le strade del New Mexico. 4 Luglio. Festa. E gli straordinari sono costosi. Personale in servizio dimezzato. Dunque pattuglie ridotte all’osso.
Filano. La lancetta del contakilometri segna le 98 miglia orarie.
Due folli che cavalcano un bolide rosso dentro la solitudine della JFK highway.
L’aria sempre torrida. Le nuvole veloci su in alto.
Come fila la Plymouth Fury con quei due tizi dentro. Solo strada e ancora strada.











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