giovedì 3 marzo 2011

COME IL CURRICULUM CHE NON SCRIVERAI MAI (PARTE 1)






Lo specchio del bagno, punteggiato sulla superficie di schizzi d'acqua asciutti, restituiva l'immagine del suo volto. Al mittente. Quel naso balengo; i tratti tutti asimmetrici, duri, come gli aveva fatto notare una volta anche C. , durante una stupida conversazione al caffè. Gli occhietti piccoli & rossi. Era mattino.
Sulla sua sinistra la finestra appannata, zigrinata ed opaca. Vetri per non vedere. Fuori il parcheggio, giù in strada. E il freddo solare d'inverno.
Gli occhi piccoli di sonno, rossi. E quei capelli neri acconciati un fuori moda, "taglio geometrico" (quello sì, tutto giocato sulla simmetria) 20 € da Denis, il parrucchiere checca sotto casa.
Il petto semi rachitico, magro, leggermente in dentro e quel ventre che gli ricordava tanto quell'aspetto da uccellino bolso che aveva Coppi in una delle crono al Tour de France del 1949, in quel documentario visto su Rai Storia alle 3 della mattina una notte quel Novembre quando aveva avuto l’influenza intestinale. Si, si, se lo ricordava bene. Quel senso di tristezza che ti viene quando ti ritrovi a renderti conto di somigliare a cose o persone con le quali non avresti mai pensato di avere a che fare.  Un sentimento simile ad una rassegnata ed improvvisa accettazione che ti fa riconsiderare te stesso alla luce di quella rivelazione. Spiazzante.

<<C’hai la faccia uguale a quello lì, come si chiama? il frontman dei dei dei.. come si chiamano oddio..>> -  sempre C. quella volta al bar. O forse era stata qualcun’altra?
Non ricordava. Vero è che ci diciamo in continuazione parole inutili, in fin dei conti che motivo c’è di ricordarsele tutte?

Quelle conversazioni che rassomigliano a manetta ai documentari delle programmazioni notturne.
Le solite romanticherie nostalgiche all'italiana. Le solite storie. Le dispute Bartali - Coppi. L'asse Roma-Berlino-Tokio. Gli anni di piombo. La tradizione del bel canto, e tutti quei fatti che hanno anche solo sfiorato la vita del belpaese. L'invenzione giornalistica della dicotomia Beatles - Rolling Stones. Sono veramente sempre quelle.

Quel suo torso pallido e quasi glabro. E fatto male. Le costole si potevano contare, e più giù l'ombelico, gli slip neri. L’immagine riflessa finiva lì. Poi il lavandino. Le piastrelle bianche lucide; attaccati affianco l'armadietto adesivi di dinosauri con i loro nomi sotto. Diplodoco.
Quattro spazzolini e un dentifricio per bambini: si consiglia la supervisione di un adulto per evitare l’ingestione del prodotto, sul dorso del tubetto il disegno colorato di un topo dagli incisivi titanici e sfavillanti che sorride. Si osservava, abbozzando sulle labbra un sorriso, scorrendo con gli occhi il suo corpo. Sbadiglio. Sembianze di uomo giovane.
Aveva l'alito da coperte e gin tonic. Quel gusto acido dolciastro che ti resta sulla lingua una giornata intera.
Prese il tubetto spremendo fuori una punta di dentifricio sull'indice, lo passò sotto l'acqua per lavarsi la bocca.
Lavarsi i denti col dito. Da veri duri.

Cantava , passandosi il dito in bocca, <<no fun my babe no fun, no fun to hang around, freaked out for another day, no fun my babe no fun, no fun to be around, walking by myself, no fun to be alone, no fun my babe no fun...>>.

Aveva in testa quel pezzo, e aveva in testa quel vecchio video datato 14 Gennaio 1978; quella versione rifatta dai Sex Pistols al Winterland di San Francisco; la vecchia roccaforte hippie, capite, con tutti i crismi del caso, e il resto. Ora, un avvenimento è leggendario non perché uomini straordinari compiono azioni straordinarie in senso assoluto, niente al mondo è assolto da condizioni, ma perché secondo un determinato contesto un’azione ordinaria si carica di un significato potente, e quest’azione passa attraverso uomini a caso. Potrebbe anche essere il primo stronzo al quale non dareste nemmeno da accendere. Capite che il fatto che quel gruppo di balordi inglesi arruffati e incazzati col mondo intero partisse per fare un tour in America e facesse tappa proprio a ‘Cisco per suonare inni che sono l’incarnazione della morte totale dell’estate dell’amore e della sua generazione è un evento che è davvero eccezionale. Talmente banale e scontato da immaginare che fa quasi tenerezza.
Siamo una specie che ha una cura così maniacale nel tenersi addosso le proprie pene.  Gelosi a tal punto del proprio dolore che lo si esibisce davvero come fosse qualcosa che appartiene a noi soltanto. Come fosse l’ultima cosa reale che teniamo fra le mani; ci aggrappiamo ad essa con tutte le forze che abbiamo.
John Lydon, in ginocchio sul palco, e la sua voce sempre più strozzata sul quel "no funnn" fino a diventare quasi una specie di singhiozzo afasico, la distorsione merdosa della chitarra "no funnnn" il basso di Sid Vicious fuori tempo con la batteria "no funnnn", ad un certo punto John smette di cantare e fa: <<che palle, perché dovrei tirarla avanti?>>, poi guardandosi attorno, solo come un cane, non guarda la folla, né la band alle sue spalle. Guarda nel vuoto.
Come se stesse aspettando la fine. Come se stesse prendendo tempo perché sa che gli sta venendo incontro la morte; dalle smorfie di quel grugno stranito si capisce che  realizza in quel momento, proprio in quel punto del pezzo, che non c'é altra via di fuga da tutta quella merda che la fine.
E si capisce che non si sta affatto divertendo.

Nicola cantava. Col dito in bocca. Riflessioni. Connessioni logiche governate dal rapporto causale. Ci sono momenti in cui riesci a vedere la fine in diretta.
Ci sono momenti in cui riesci a sentire che la fine ti scivola sulla punta delle dita: presente, silenziosa, strisciante. Sui polpastrelli & sulle palpebre. Che ti spia. E ci sei dentro.
E’ una specie di smania.

Sputò dentro il lavello la schiuma, sciacquandosi la bocca con l'acqua fredda; passò più volte la mano sulla vasca di ceramica per togliere la saliva spumosa dal lavandino.
Ancora un’occhiata alla sua figura dentro lo specchio, restava ancora lì, passandosi le mani fra i capelli, dandosi una stropicciata al viso, sbadigliando.

Tornò verso la camera di lei. Si sbrigò a cercare i jeans, la camicia, i calzini sparsi a terra in mezzo ad altro casino. Coprirsi velocemente. Gelida nudità, freddo.
Vestendosi diede un occhiata più attenta a quella cameretta incasinata dal sapore ancora vagamente prepuberale; da piccola donna in boccio. Restò a scorrere le foto appese ovunque sulle pareti, abbottonandosi gli ultimi due bottoni dei jeans. Da ultimo le scarpe, decisamente troppo estive. Decisamente troppo bucate. Aveva uno strano dono Nicola, riusciva a distruggerne un paio al mese così come niente.

Aveva addosso quel mal di testa odioso e familiare. Postumi. Gola arsa e budella urlanti Ricomporre le tessere con precisione.
L’ordine cronologico è così prezioso la mattina dopo. Hai la scatola nera da qualche parte, non sai dove, e anche una chiave di lettura solo che spesso fai una fatica bestia a trovare la porta.  
La cena coi compagni di corso. Con i colleghi! La corsa da lei nella notte, l’una e mezza; le due forse?
Continuava ad osservare i cristalli di tempo fermo attaccati alla parete, stiracchiandosi. Lasciarle qualcosa di scritto. Corse verso il corridoio a cercare la sua borsa. La trovò sul pavimento dell’ingresso, sotto la sua giacca nera appesa all’attaccapanni da muro, la tracolla in pelle di montone australiano pagata l’ira di dio su internet. Rifiniture scadenti. Un classico degli acquisti in rete, la relatività della dicitura “come da foto”. Cercò fra i quaderni una penna e un foglio di carta; dentro il casino della borsa trovò anche dei cioccolatini che aveva preso, solo per il gusto di farlo, la sera prima a quella fottuta cena; neanche gli piacevano i ferrero rocher.   












Nessun commento:

Posta un commento

Licenza Creative Commons
HIT PARADE FEVER by Edoardo Canella is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non opere derivate 3.0 Unported License.