martedì 31 gennaio 2012

NOTTE D'ACCIAIO AD ABUJA.. E TANTA MUSICA DI MERDA




(un racconto a puntate, di Emilio Brinis)
Ultima Puntata


Alba, Abuja



Ha alzato la bottiglia tenendola per il collo.
Non ha fatto in tempo a batterla contro il bancone del bar per romperne l’estremità che io l’avevo già accoltellato in pieno petto. Un colpo. Il  tempo di un battito d’ali di una farfalla a Maggio. Non so come ho fatto ad essere così cazzutamente veloce con il coltello. Non lo avevo mai usato prima. Io non ero mai stato un assassino.
Ma vedete, vivo in un container di 15m² in un campo in mezzo alla savana, mi sveglio tutti i giorni alle 5, mangio il cibo che mi mandano in una gavetta di ferro ed il lavoro è una guerra. Con chiunque. Ogni giorno.
Forse tra i due la vera bestia ero io.
E pensare che a 16 anni ero pacifista.

Mi ha guardato per un istante, incredulo. Poi è crollato. Era morto ancora prima di toccare terra.

E’ rimbalzato sul pavimento. Ha fatto un rumore da sacco rovesciato.
Poi si è scatenato l’inferno. Una situazione spaventosa a ripensarci. Potevo lasciarci le penne, lì dentro.

Per raggiungere l’uscita mi sono dovuto fare strada a coltellate, colpendo chiunque mi ostacolasse. Come nella foresta, quando avanzi a botte di machete.
I vetri si infrangevano attorno a me, brillavano per un istante come fuochi d’artificio, mi colpivano, mi tagliavano. Volavano calci e pugni, spintoni, colpi. Io barcollavo, cadevo, cercavo di ripararmi e allo stesso tempo continuavo a colpire. A tagliare. L’odore ferroso del sangue era nell’aria. Tutto attorno a me. Odore di ferro bagnato misto barbabietola.
Forse ho ucciso qualcun altro prima di riuscire ad uscire. Potevano farsi i cazzi propri.
All’uscita mi aspettavano i buttafuori, entrambi formato libreria modello Billy di Ikea, ed è stata dura passare per di là. Uno di loro aveva una di quelle torce con il manico lungo. Quante me ne sono prese. I danni me li hanno fatti quei due. Una bella fortuna aver avuto ancora il coltello e la presa salda. Mi avrebbero ucciso.
Ricordo un colpo in testa con una bottiglia di vetro che mi ha annebbiato la vista dal male, un buttafuori a terra per una coltellata alla gamba, e l’odore del sangue anche lì. Poi un’altra coltellata, non ricordo dove. Un colpo feroce, rabbioso, che ho inferto urlando. Il pavimento in marmo bianco diventare rosso.
Poi le scale. Che ho sceso rotolando e barcollando. Quattro piani.
Devo essermi rotto una o due costole. Ma sono stato bravo a non farmi ammazzare.

Sono uscito in strada, e per fortuna lì non c’erano altri ostacoli. Non c’era nessuno. Solo la  città, e la notte buia, che mi ha nascosto. Mi sono trascinato per le vie a caso, cercando di allontanarmi il più possibile da quel palazzo maledetto prima che mi inghiottisse, poi mi sono fatto guidare dall’odore di cherosene per arrivare qui. In un deposito di cisterne.
C’è un piccolo piazzale asfaltato chissà quanti anni fa, con buche fonde come piccoli crateri, ed una pompa di benzina. A ripensarci non sono capitato male. Nel complesso è un posto pittoresco, di quelli che piacciono a me; tipo zone industriali, sfasciacarrozze, cimiteri di auto, officine, cantieri. Li trovo affascinanti; suggestivi nella solitudine e desolazione in cui giacciono.     
       
E’ tardi ed inizia a fare chiaro; tra un’ora o poco più inizierà a sorgere il sole. Sono messo male. Anzi, sono  a pezzi. Quando si dice in un mare di merda. Fatico a muovermi. Non riesco a camminare. Le botte le sto sentendo tutte a scoppio ritardato. Qualche taglio sanguina ancora.
Non ho idea di dove siano finiti il mio telefono, il portafogli, il pick up bianco nuovo di zecca, e soprattutto i miei amici. Forse conoscevano quel vecchio proverbio che dice “E’ consigliabile non viaggiare con un morto”, e l’hanno applicato alla lettera. Come dar loro torto?
Sono rimasto solo, a piedi, con le tasche vuote e non ho idea di dove mi trovo.
Ho anche perso, o forse finito, quelle sigarette del cazzo, le Rothmans Light.
Sono solo, solo e ammaccato, e aspetto l’alba. Cerco di recuperare le forze. Almeno un po’.
Chissà cosa direbbero i dirigenti, loro che non volevano lasciassi il campo presso la diga, vedendomi qui, in queste condizioni; l’insubordinato, l’evaso…l’ammutinato del Bounty. Magari useranno la mia storia come monito per le nuove leve. Guardate cosa è successo a quello lì. Era un ribelle.
E pensare che anche quei due coglioni dei miei vicini di casa, Tony Roma e Montalbano, ci hanno sempre considerato dei pericolosi, evitando sempre di uscire con noi. He…

La verità è che mi sono cacciato in un bel guaio.
La verità è che qui la gente è parecchio mattiniera ogni maledetto giorno, e che, non avendo alcun posto di preciso dove andare, se ne vanno un po’ dappertutto. Anche nei merdosi depositi di cisterne e benzinai la domenica mattina. Magari le pompe perdono e ci facciamo un litro da vendere.
La verità è che qui le notizie girano con il tam-tam, di bocca in bocca, di auto in auto, di vicolo in vicolo, con una velocità ed una capacità di diffusione sorprendenti. Qui sanno sempre tutto. Non hanno avuto bisogno di inventare Internet o le telecamere a circuito chiuso. Si sarà ormai sparsa per tutta Abuja e per tutte le baraccopoli che la circondano la notizia di un bianco che ieri sera ha ucciso uno di loro con un coltello e ne ha feriti chissà quanti in un locale fighetto vicino all’Hilton. La prima persona che mi vedrà capirà all’istante che sono io quel bastardo.
Farà casino. Ne chiamerà altri.
Qui i bianchi non sono molto popolari. Figurati quelli che tirano di scherma.
La verità è che qui avvengono ancora i linciaggi.
Gli hausa girano con il coltello a serramanico. I foulani con il machete, sin da bambini. I musulmani con un bastone tipo frustino. I soldati con fucili d’assalto modello AK-47. I cacciatori con carabine fatte in casa coi tubi da idraulico, con fionde, mazze, giavellotti. Con cani magri e famelici. E poi, sparsi un po’ dappertutto, specialmente agli angoli delle strade, ci sono pietre, cocci di vetro, calcinacci, chiodi arrugginiti, barre d’acciaio al carbonio. Nell’evenienza.
Dovrei continuare a scappare, come Joe della canzone di Jimi Hendrix. Ma non ce la faccio. Sono distrutto.
Ad ogni modo, il mio Opinel No. 8 è ancora qui con me, fedele come il migliore amico dell’uomo, sempre con me come un anello nuziale. Edizione limitata con lama in ferro a punta di lancia. Appuntita, ruggine ed affilata come un rasoio da barbiere. Ora che da utensile si è trasformato in arma, è ancora più figo. Il manico in legno è scuro di sangue secco. La lama è completamente arrugginita. Quelli che non ho ucciso o ferito gravemente si saranno presi il tetano o qualche altra malattia. Qui i vaccini non se li fanno.
E fortuna ha voluto che, anche se quelle sigarette del cazzo sono finite chissà dove, l’accendino mi sia rimasto in tasca. Quando arriveranno, se le cose si metteranno veramente male, con tutta questa benzina faremo un bel botto. Daremo inizio ad una nuova era.

C’è una gran pace qui, in questo momento. Il silenzio è rotto soltanto dal canto dei grilli e dei primi uccelli mattinieri. Stranamente non passano macchine. Magari senza la presenza dell’uomo questo sarebbe un posto migliore. O magari l’abbiamo smerdato noi.
Ricordo una ragazza conosciuta quando ero ragazzino, più o meno ai tempi delle medie La Figlia del Benzinaio, come la chiamavamo con gli amici. La vedevo quando andavo a fare il pieno con papà alla Tamoil sulla Statale 11.
Era nel piccolo ufficio prefabbricato che leggeva o faceva i compiti.
Una teenage queen ai miei occhi. Una gran figa.
Quanto ho sognato di scoparmela. Non ci siamo più visti, e non ho idea di che fine abbia fatto. Spero solo che in questo momento se la passi meglio di me. Ma non ci vuole molto.

Mai nella vita sono stato tanto vicino alle urla di John Frusciante, mai tanto vicino ai suoni graffiati sulla chitarra sofferente e all’abbandono che trasmettono. L’abbandono di un essere umano lasciato a se stesso, senza via d’uscita.
Ora finalmente posso capire, e tutto mi appare chiaro. Riesco a comprendere, ad entrare nel motivo e nella spiegazione. In questa avventura satura di sangue e di follia, nulla ha avuto un senso, e tutto è avvenuto così, casualmente. Questo è il senso.
La spiegazione è che non ci sono spiegazioni.
La morale è che non esiste mai una morale.
Le cose non vanno mai come vuoi tu. Come credi che dovrebbero andare.
Le cose succedono e basta. Soprattutto quando ci sfuggono di mano. Quando entrano in gioco le cosiddette variabili aleatorie, scatenando una concatenazione di cause ed effetti. Di azioni e reazioni.

Nella teoria dei lavori con l’uso di esplosivi si impara che alcune cariche possono non esplodere. Succede se alcune connessioni tra le micce detonanti non  sono fatte a regola d’arte. Se i nodi non sono del tipo piano. Lo stesso accade se i relays non sono collegati bene.
Le corde detonanti possono tagliarsi.
Ma il detonatore, quello scoppia sempre.
E questo è quanto.
Il mio ultimo pensiero felice è dedicato alla bellezza. Rivedo immagini del mondo che ho lasciato un anno e mezzo fa, quando ero ancora una promessa della gioventù post-coloniale.
Ora aspetto l’alba. Dovrò essere forte.
Sarà un’alba tragica, disperata…un’alba rossa di sangue.
Comunque vadano le cose, io non me ne andrò solo. Almeno un paio di questi coglioni me li porto dietro.


Dedicato agli amici con cui ho trascorso giorni e notti indimenticabili in Nigeria.
PS: non è vero che in Messico ho mangiato dei tacos farciti con carne umana!


giovedì 26 gennaio 2012

NOTTE D'ACCIAIO AD ABUJA.. E TANTA MUSICA DI MERDA




(un racconto a puntate, di Emilio Brinis)
Seconda Puntata





Abuja, Constitution Avenue






La fase alcolica dell’esuberanza era passata, fine della baldoria, mi sentivo stanco. Avevo voglia di tornare a casa, di andare a letto e dormire. Ma si era in tanti, e penso qualcuno avesse intenzione di caricare. Ho ballato un paio di canzoni Afro beat e sono finito seduto al bancone del bar, con la sigaretta in bocca e lo sbadiglio a mitraglia, per ordinare un Jack Daniel’s. So che, viste le condizioni, può sembrare una scelta scema, ma è l’unica cosa che mi è venuta in mente. Poi, sono abbastanza allenato con i superalcolici.

Mi osservava dall’altro lato del bancone, ammiccante, provocante, sorridendo e mandandomi baci. Leccandosi le labbra. Io cercavo di non farci caso, sapevo che sarebbe stata una gran seccatura. Volevo solo
andare a dormire. Nel frattempo aspettavo che qualcuno degli altri si decidesse ad andare, e sorseggiavo il mio whiskey. Si è fatta avanti, e in quel momento è iniziato il casino.
Si è alzata dal suo sgabello al bancone del bar per muoversi verso di me, guardandomi con occhi maliziosi e sensuali. Con loro è sempre lo stesso copione che si ripete un numero infinito di volte con un numero infinito di ragazze. Puoi variare i locali in cui esci, magari andare in piscina al pomeriggio quando non si lavora, al campo di tennis, ma è sempre lo stesso...sempre uguale.
Vedono noi bianchi e vengono a vendersi. Opportunità di guadagno facile e spesso indolore, prostituzione o sesso a pagamento, il concetto è quello. E non importa che tu sia giovane e bello, benvestito, simpatico, non islamico, educato…qui non importa niente, sei bianco ergo hai i soldi. Una scopata è un guadagno. Fine. Tanto meglio se duri poco. E te le devi tenere in casa fino alla mattina dopo.
Non sono stato proprio un gentiluomo, ma l’ho bloccata prima ancora che si sedesse accanto a me. Le ho detto che mi lasciasse in pace. Che non cercavo compagnia. Che ero stanco e volevo stare solo. Che andasse a rompere il cazzo a qualcun altro. Di gente ce n’era.
Beh…almeno sono stato schietto, sincero. Non sono uno che illude le donne, io. Nemmeno gli uomini.
Lei se l’è un po’ presa, del resto non le ho neanche dato il tempo di aprire la bocca per dirmi “Ciao!”, o “Come stai?”. Ma per come la vedo io questa è solo correttezza portata all’estremo.
Si è dimostrata un po’ offesa, seccata, ma non penso di averla ferita nel profondo.
Infatti…non se n’è andata, e vicino a me si è seduta lo stesso.
Mi ha chiesto una sigaretta.
Glie l’ho data. Una Rothmans.
Mi ha chiesto di offrirle un drink.
Ho detto di no.
Mi ha chiesto perché.
Perché no. Voglio restare da solo. Andare a casa. Dormire.
Uno solo, anche una lattina di birra.
No.
Mi ha chiesto qual è il problema.
Il problema sei tu. E’ questo casino. Questo locale di merda.
E mi ha mandato a cagare. Nella sua lingua, il dialetto hausa. Ma il fanculo è sempre una delle prime parole di una lingua nuova che si imparano.
Ho acceso una sigaretta. Sempre della stessa merdosissima marca di prima.
Qui bisogna consumare in fretta il pacchetto, prima che diventino troppo secche. E amare.

Vedevo il Mitico ballare veloce. Sempre più veloce. Una turbina.

Lei è rimasta seduta lì dov’era. Dura come un macigno. Ha parlato con il barista, che dopo qualche attimo le ha servito un Jack Daniel’s. Doppio. Senza ghiaccio. On the rocks.
Io ho continuato a fumare e ho chiesto il conto. Era ora di andare. Sul serio. Ero esausto. Fanculo gli altri.

Ho chiesto il conto. Avevo consumato un solo whiskey. Singolo. Senza il ghiaccio.
Nel conto ce n’erano due. Due maledettissimi whiskey. La stronza si era messa d’accordo con quell’idiota del barista di addebitarmi la sua consumazione senza chiedermi il permesso. Un accordo tra nativi. Non si fa.
Pensavano che non me ne sarei accorto. Che avrei pagato qualsiasi cifra scritta su quel foglio del cazzo. Tanto, sono un bianco. Un oybo.
Un vecchio trucco delle prostitute del posto.
Ma si dà il caso che per sgamare un vecchio trucco ci voglia un vecchio cane. E io, guarda caso, sono un vecchio cane. Li conosco bene i trucchi, quaggiù. Li conoscevo bene anche a Padova. Sono un professionista della notte. Un vero bastardo.
Ho perso le staffe. Non ci ho capito più niente. E sono iniziati i guai. I fuochi d’artificio.
Al barista ho detto che era uno stupido coglione, chiedendogli se era scemo o se cercava di incularmi.
Gli ho detto che non avrei pagato nulla. Che non mi faccio fregare così, dal primo coglione dietro un banco in combutta con la sua amichetta puttana.
Gli ho detto che volevo parlare con il direttore di quel cazzo di posto, con il titolare. Che l’avrei fatto licenziare.
Altrimenti avrei chiamato la polizia. La forze armate. L’ONU. Il Generale Mongo.
A lei ho detto che era una troia. Che quel drink non glie l’avrei offerto mai e poi mai. Piuttosto un calcio in culo. Che non avrebbe dovuto rompere i coglioni a me. Che le avevo detto, le avevo chiesto di andarsene, di lasciarmi in pace.
Che era una stupida puttana. A stupid bitch.
Ho preso un boccale a caso dal bancone e le ho rovesciato addosso il contenuto. Una birra verdastra e maleodorante. Chissà da quante ore era lì.
Il boccale l’ho scagliato sul pavimento dietro il bancone, giusto per fare contento quel ladro imbroglione di barista.
E’ esploso come una granata. Vetri scintillanti ovunque.
E niente, questo è quanto.

Nella teoria dei lavori con l’uso di esplosivi si impara che è l’esplosione di un detonatore che innesca le cariche di dinamite e deflagranti per frantumare un banco di roccia. Una detonazione. Si propaga attraverso la miccia detonante e, raggiunte le cariche, salta per aria tutto. Al posto di una collina trovi un buco. E tanta roccia di granulometria ridotta ammassata in un punto facilmente raggiungibile da una pala per il carico nei camion. Naturalmente nel caso in cui i minatori sappiano fare bene il proprio lavoro.
Il detonatore è una cartuccia di plastica grande più o meno come un accendino. Una stronzatina grande così. Il suo scoppio scatena un fenomeno di dimensioni impressionanti. Un disastro per la natura. Impatto ambientale a mille.
Quel che ho fatto io è paragonabile all’innesco di un detonatore. Ho dato il via.
C’è stato come un momento di quiete dopo la mia sfuriata da uomo bianco schizzato, ed il barman, umile e servile, con la sua camicetta bianca ed il papillon nero, continuava a chiedermi scusa, a dire che era stato un errore, che aveva sbagliato a battere il conto alla cassa. Che non voleva fregarmi. Il classico errore di battitura, come si definisce nel gergo tecnico, niente di più.
Perdono, capo.
Sorry oooh, Oga.
No wahalla, Master.
Mi implorava di non denunciarlo al titolare, di non chiamare la polizia. Di lasciare stare l’esercito.
Non aveva capito che stavo bluffando.
La ragazza era scomparsa.

Penso che molta gente mi stesse osservando, perché non mi sono allontanato, non mi sono messo a cercare gli altri e non mi sono diretto verso l’uscita. Sono stato lì, fermo come un idiota. Paralisi è il termine tecnico.
L’errore in tutta la sera, l’unico errore che ho commesso, è stato quello. Restare lì quei due minuti, non filarmela alla svelta.
Non è stato ignorare il sonno e la stanchezza, bere come pochi, fumare erba fino a non capire più niente, e uscire portandomi dietro un coltello. No. Quelle sono cose che qui faccio regolarmente. Sono la routine. L’errore è stato non filarmela subito. Non dire al Mandriano che avevo fatto una cazzata. Non cercare Lo Sfregiato per darmi man forte. O magari un taxi.

E’ ricomparsa.
Era stata al bagno, vicino all’uscita. Forse a sciacquarsi quella merda di dosso, o a parlare con qualcuno.
Già, a ripensarci deve proprio essere andata a parlare a qualcuno, a cercarlo. E’ tornata. Non sola.
Il tizio con lei era un orango vestito a festa. Di quelli che girano per i villaggi, tra le galline e le baracche in legno e lamiera, a fare i fighi con le scarpe a punta, il vestito colorato cucito dal sarto, il bastone, il cappello da cowboy, e l’orologio, gli anelli e le collane color oro. Una Toyota parcheggiata chissà dove.
Un po’ ridicolo, sì, ma grosso. Categoria Pesi Medi.
Venivano verso di me, e lei mi indicava con occhi furiosi.
Mi indicava con occhi furiosi e gli parlava. Avanzavano come Bonnie e Clyde.
Lui mi fissava con lo sguardo algido di chi è cresciuto per le strade del Bronx. O di Harlem. O di qualche altro posto di merda in Africa. Un duro. Come nei film. Mac Facciadiculo. Ad ogni passo si avvicinavano, si facevano sempre più grandi. Erano piazzati giusto tra me e l’uscita, e mi bloccavano l’unica possibile via di fuga. A meno che non volessi lanciarmi giù dalla finestra, dal quarto piano.
Ma a quello non ci ho pensato proprio. Sono qui in Africa da un anno e mezzo, e sono un duro. Un cazzutissimo figlio di puttana. Giovane, ma super corazzato.
La gente li faceva passare, faceva largo, ed infine mi sono arrivati davanti, vicino al bancone.
Io avevo già la mano in tasca. Avevo intuito che il mio piano di tornare a casa al più presto avrebbe subito una variazione. Un cambio di programma.
Mi si è piazzato davanti e come prima e come prima cosa si è tracannato un lungo sorso dalla sua bottiglia di birra. Una Star da 66. Forse per farsi coraggio.
Non ho potuto fare a meno di notare che  mancava di un incisivo sull’arcata superiore e che sul volto aveva i tagli tipici degli yoruba di Lagos. Gente pericolosa. La ragazza urlava rivolgendosi a me. Isterica dura. Io non la ascoltavo nemmeno. Mi stavo concentrando. A lui basta un pugno per ammazzarti.
Si è rivolto a me chiamandomi “Bature”, che vuol dire uomo bianco, e mi ha chiesto per quale cazzo di motivo avevo maltrattato la sua sorella. Qui sono un po’ tutti fratelli e sorelle. Societé tribale.
Era minaccioso ed ostile, visibilmente incazzato. Mi ha chiamato “fucking man”. Altro segno di pericolo.
Io ho cercato di spiegargli che sua sorella si era accordata con il barista per farmi pagare anche il suo conto, senza interpellarmi e senza il mio consenso.
Non mi aspettavo che mi stesse ad ascoltare o che volesse capire quel che gli dicevo.
Lei continuava ad urlare come un’arpia.
Con la conversazione non saremmo arrivati da nessuna parte. I presupposti mancavano del tutto. Mi sentivo demotivato.
Scazzato, ho mandato a fanculo entrambi. “Waka” è il termine che si usa qui. Il gergo indigeno.
Silenzio.
Tensione.
Rabbia.
Poi un casino pazzesco. Come un boato, un’esplosione.

Le urla si sovrapponevano a quella musica di merda.



(Continua...)




sabato 21 gennaio 2012

NOTTE D’ACCIAIO AD ABUJA…E TANTA MUSICA DI MERDA





(un racconto a puntate, di Emilio Brinis)



Lo Zuma Rock, direttrice Abuja-Kaduna





Ricordo una storia letta in gioventù, una ballata, il racconto di un viaggio di morte intitolato "L’uomo del grande Nord". Al tempo non avrei mai potuto immaginare che…ma mi solleva pensare che in questa lurida faccenda io non ho colpe. Non grandi colpe almeno…
E poi…sono stato veramente svelto…veloce come un ninja impazzito.
Questa storia, per chi mai la ritroverà, non è né uno sfogo né tanto meno una confessione in extremis. E’ la mia storia. La storia di una notte d’acciaio e tanta musica di merda. Forse della mia ultima notte. Di un gran casino.
E’ la mia ballata. Il mio canto di morte. Scritto con il cherosene ed il sangue.

Signori, come si diceva in Marina…fuoco alle polveri!



Per noi stronzi che lavoriamo quaggiù, il pay-weekend è l’unica occasione nel giro di un mese per godere di un fine settimana come quello dei lavoratori occidentali. Con il sabato e la domenica liberi. Festivi. Si, si chiama pay-weekend, ed inizia con il giorno in cui gli operai vengono pagati, l’ultimo venerdì del mese...poi tutti a casa fino a lunedì.
Loro tornano dalle famiglie, nei loro villaggi, a sputtanarsi i soldi in telefonini e altre stronzate d’importazione, a farsi belli imitando i rapper stile yankee delle soap opera, noi ci riposiamo un po’ e per un paio di giorni ce la prendiamo comoda. Niente di particolare, due chiacchiere al club, una birra, una partita a biliardo.
Le altre settimane lavoriamo fino al sabato sera, a volte la domenica mattina…vita da cantiere.
Quaggiù con il lavoro ci facciamo un culo grande come una casa. Forse anche di più. Ma ci sta, se non altro data la desolazione del posto in cui viviamo.

L’esperienza, la formazione, la gavetta, l’importanza di vedere le cose da vicino. I grandi cantieri, altro che edilizia. Queste erano le belle idee di cui avevo piena la testa quando ho deciso di venire all’estero, quando ho iniziato a mandare i curriculum, il giorno del colloquio, durante la visita medica, ed erano giuste. Avevo centrato l’obiettivo. Per una volta avevo le idee chiare. Un’ eccezione per i miei standard.. Avessi saputo che sarei finito in queste condizioni, ferito e fuggiasco, e che probabilmente la storia potrebbe concludersi qui…beh, credo che l’avrei pensata un po’ diversamente. O forse no…chissà. Sono sempre stato un incosciente. Un avventuroso. Già.

Sono arrivato qui ad Abuja ieri nel tardo pomeriggio, dopo un viaggio di due ore e passa attraverso la savana, i villaggi lungo la superstrada Abuja-Kaduna ed i grandi cantieri stradali, con il mio pick up nuovo di concessionario. Toyota Hilux. Sdoganato da Lagos dieci giorni fa. Bianco come l’avorio. Un po’ ingiallito dalla polvere della savana, la laterite secca, ma quella è inevitabile. Con i battistrada delle gomme profondi come quelle dei rally e la trasmissione 4x4 funzionante…il giorno in cui me l’hanno assegnato, consegnandomi le chiavi, mi sono sentito come se avessi appena ricevuto qualcosa di sacro. Ne avevo quasi soggezione. Io prima guidavo un rottame con i fili di ferro che uscivano dalle gomme e la carrozzeria fracassata. Tipo quella jeep dell’ONU abbandonata all’angolo di una via a Lagos. Solo che quella era anche stata bruciata. Missione di pace in territorio ostile.
Alle porte della città, nei pressi della baraccopoli principale, ho congedato l’autista, Ishaku, e ho guidato io fino al campo. Se la starà ancora spassando con i soldi che gli ho lasciato. Un buon diavolo. Un musulmano che si spara 4 birre da 66 sotto una tettoia e lancia il pick up a 180 all’ora, di notte, sulla strada buia e devastata dalle buche. Qui lampioni zero. Davvero un visionario della guida.
Era da un mese e mezzo che non tornavo in città; tra una palla e l’altra non ero più riuscito a muovermi da quella diga del cazzo in mezzo alle montagne. Questioni di lavoro, di autorizzazioni e di stanchezza.
Anche questo viaggio non è stato del tutto autorizzato; anzi, tecnicamente sono scappato. Evaso. Mi costerà forse una lettera di richiamo per insubordinazione o per abbandono del posto di lavoro…ma io avevo organizzato tutto alla perfezione. I capi poi hanno cambiato idea. Girato le carte in tavola. Fanculo.
Tanto la lettera di richiamo non conta niente. Ora poi…

Qui ad Abuja sono sempre stato bene, ed ogni volta che ci torno mi sento meglio. Felice. Rilassato.
Sapete, il ritorno…è ritornare; come quella canzone, “Take me home”. Stare lassù tra le montagne è duro. Molto. Questione di solitudine, di silenzio, di abbandono. Amen.
Qui invece…ritrovo sempre il mio piccolo appartamento con i muri che ho abbellito con dei disegni colorati nel primo periodo, quando ero l’unico giovane del campo, e le conchiglie che pendono dal soffitto, il giardino dove avevo appeso l’amaca per leggere, i miei colleghi e gli amici…sono arrivato che mi aspettavano al club, con una Heineken ed un pacchetto di Rothmans Light pronti per me.  Le Rothmans; che sigarette del cazzo.
Ed è iniziato subito il circo. Come sempre.

Non che sia mai stato uno che si tirava indietro, intendiamoci, ma qui si esagera. Si gioca duro. Sarà l’Africa, che ne so, la desolazione, il fatto che tutto và bene…non c’è mai limite ai festeggiamenti e alle baldorie tra cani di cantiere. Tra pirati.
Abbiamo iniziato a casa mia – era chiusa da tutto quel tempo e puzzava di legno vecchio e polvere, uno schifo – come ai vecchi tempi, prima che mi trasferissero. Poi una siesta al bush bar, da Mama Africa. Sempre adorato quel posto. Uno spiazzo di terra secca lungo la strada statale, un mercato di artigianato locale, tre baracche di legno e lamiera, tavoli e sedie di plastica bianca. Nel retro, altre due baracche allestite con tendine e materassi, in cui puoi farti una scopata per 5000 Naire. 25 euro circa. Il bush bar.
 Noi quattro, “The Abuja’s Rejects”, come avevamo deciso di chiamarci in una serata…diciamo… particolarmente ispirata. Il Mitico, Il Mandriano, Lo Sfregiato ed io, Il Vecio.
Non ricordo di preciso quanto siamo stati lì, tra i cani e le palme, a bere birre, ma quando ci siamo incamminati verso il campo ero già fuori combattimento. Di sicuro anche gli altri. Sbadigli continui. Una sigaretta dietro l’altra. Il passo elastico, indeciso. Ed il sole doveva ancora tramontare.
E’ una delle lezioni dell’Africa: per quanto fatto tu sia, devi andare avanti, non mollare, non fermarti. Devi rimanere attivo, è l’unica soluzione per non crollare a letto e poi svegliarti il giorno dopo alle cinque del mattino come un pirla.
Devi lasciarti andare a quello che succede, e soprattutto, non opporti al tuo stato fisico. In Italia non ce l’avrei mai fatta. Ma figurati.
Qui è così, nulla ha mai importanza. Valgono tutto ed il contrario di tutto.
Perfino ora, che tremo come una foglia, scatto ad ogni fruscio e fatico a reggere la penna….

Ad ora di cena c’era la festa del cantiere, presso il gazebo (“Payotte”, come si dice qui) dietro il club, con griglie fumanti, musica e alcool a volontà. Vino, birre, long drinks o super alcolici…tutto gratis. Una figata.
Per l’occasione il capo campo aveva pure invitato un giovane dj e delle ballerine.
Uno spettacolo anomalo: quel cazzone al posto di suonare il suo merdoso reggaetton si è perso in comizi sulla Nigeria, la malaria, noi bianchi che siamo degli stronzi con loro, eccetera eccetera. Poi si è deciso. Forse qualcuno deve averlo minacciato. Suona, o non ti paghiamo. E le ballerine…probabilmente delle prostitute pescate al Capitol Lake o in qualche altro bordello in zona. Non erano lì solo per ballare diciamo.
Comunque è stata una cena divertente, ed è stato bello ritrovare i miei vecchi colleghi; con loro, salvo qualche piccolo battibecco, sono sempre andato d’amore e d’accordo. In diga invece…ci odiamo tutti.

Poi…devo essermi distratto, o forse addormentato; quel che ricordo è che eravamo, sempre noi quattro, a bordo del mio pick up, con la musica a palla, che sfrecciavamo ad una velocità da nausea verso Abuja. In macchina facevamo casino, fumavamo, ballavamo e ci agitavamo sui pezzi sparati dall’autoradio. Urlavamo a quei poveri coglioni dei passanti e ci sporgevamo dai finestrini. Anche Abuja e le luci dei suoi palazzi ballavano e si agitavano, si contorcevano sensuali, mi invitavano seducenti e minacciose. Come le sirene che adescano i marinai.
Va tutto bene Vecio, non puoi fermarti ora…

…la compagnia nel frattempo si era allargata; qui si esce tutti quanti in branco, come durante la leva…

Eravamo seduti al tavolo di un cocktail bar in cima ad un palazzo, sulla terrazza con vista sulla città. Sorseggiavo un Singapore Sling osservando le strade, le automobili, gli altri palazzi…Abuja era bellissima ieri sera. Splendeva di mille luci colorate, l’aria non puzzava tanto, le palme ed i giardini erano solenni nella loro millenaria immobilità, esotici e misteriosi, si sentivano tutte le musiche di tutte le macchine per strada. Le frenate. Le sgommate. Qualche urlo di qualche incazzato.
Il mix di alcolici continuava a lavorare di brutto, ci dava dentro pompando pesante.
Nel frattempo qualche coglione tra i gestori del locale aveva avuto la brillante idea di accendere il megaschermo del televisore satellitare, probabilmente per far vedere a tutta la clientela che funzionava. Che non era una scatola a forma di televisore da ricchi.
Il vero problema era che questo mega schermo formato quadro rinascimentale si trovava a qualche metro da noi, giusto di fronte a me e allo Sfregiato, che eravamo i più fulminati di tutto il gruppo, come sempre. Lo vedevi anche senza volerlo. Un bombardamento di elettroni dai colori sgargianti. Il top.
Sintonizzato su di un canale sportivo, trasmettevano la diretta dalle Olimpiadi dei Disabili. Uno spettacolo surreale, di quelli che ti lasciano senza fiato. Lancio del giavellotto dei ciechi, marcia dei paralitici, basket in sedia a rotelle, tizi senza gambe che corrono i 100 metri su trampoli in carbonio e cose del genere. Uno shock se sei fuori come lo ero io. Faceva quasi paura.
Inquietudine totale.
Con le voci della cronaca, rigorosamente in inglese, che si sovrapponevano al reggaetton, all’Afro Beat e a tutta la musica proveniente dal bar, dalle auto, da tutta Abuja, alle voci dei clienti…c’era da impazzire. Non sentivo nulla di quello che gli altri mi dicevano. Ridevo come un idiota quando avevo la sensazione stessero dicendo qualcosa di divertente. Li imitavo. Cercavo di sembrare a posto. Non sarei durato a lungo, ne ero certo. Al secondo giro è iniziato il malessere, vortici e sudori freddi, sigarette a manetta e tutto il resto. Corri in bagno a sciacquarti la faccia, cerca di ripigliarti un attimo. Poi finalmente siamo riusciti a schiodarci.
Lasciando lì metà del mio secondo Singapore Sling. Ottimo cocktail, per chi non l’abbia mai assaggiato.

Non so chi l’abbia deciso, ma mi sono ritrovato assieme a tutti gli altri in un nuovo locale vicino all’Hilton. Un disco lounge bar, di quelli dove un dj suona, la gente beve qualcosa e chi vuole balla. Un posto carino, abbastanza elitario, dove si caricano belle ragazze. Di quelle che paghi come se fossi in Europa. Stile Bunga-Bunga. Anche questo in un palazzo adibito a centro commerciale, al quarto piano. Negozi di prossima apertura, agenzie chiuse, desolazione totale…qui succede spesso, andare per negozi può portarti in edifici spettrali, dove senti il rimbombo dei tuoi passi e l’eco della tua voce. Esperienza a volte suggestiva, a volte inquietante. Questa città non ha una storia, è stata progettata a tavolino nel mezzo della Nigeria 20 anni fa, e continuano a costruire indiscriminatamente, col miraggio di Abuja 2050. Qui credono ancora che il Futuro sia una promessa.
L’ingresso mi ha preoccupato, i buttafuori avevano il metal detector. Ma per fortuna qui essere bianco ti pone ad un livello superiore rispetto ai locali; evidentemente un’eredità del periodo coloniale, fatto sta che su di noi non l’hanno usato.
Ripensandoci non credo sia stata una gran fortuna…



venerdì 22 luglio 2011

COME IL CURRICULUM CHE NON SCRIVERAI MAI (PARTE 3)




Ian Davenport - "Poured Lines: Mixed Greys & Black"





(Fred, 7.20, casa di Aurora)

Sveglio.
Hey dico è l’ora di alzarsi, ora di sentire Nic, di scrollarsi di dosso questo senso di malessere da letargo. Ho fatto la cosa sbagliata. Di nuovo?
Il suo braccio attorno al collo, stesa in posizione fetale abbracciata a me a cucchiaio, diochemerda.. Russa leggermente respirando con il naso mezzo chiuso. Schifo.
Il salotto è ancora un bel casino, la tavola è ancora apparecchiata di bottiglie sgonfie e riso pilaf raggrumato in piccoli mucchietti (sembrano uova lattescenti di rana rapprese). La scatola di cioccolatini quasi vuota. Bocce di vino semivuote.  Persiane giù.
Dico, cazzo, siamo finiti per scopare?
Quando se ne sono andati via tutti a ruota dopo che Nic era uscito di lì in fretta e furia - erano le tre meno venti - abbiamo bevuto ancora un po’ della  birra portata da Jos: birroni da 66 belli tosti , rimasti avanzati, e lei mi fa resta qui a dormire e io dico OK - era tardi e non avevo modo di tornare verso casa, scelta di comodo - siamo amici dico fra me non succederà niente - lei chiaramente infoiata, tenuta a fame di cazzo com’era - siamo amici, sarebbe la cosa più sbagliata che potrebbe succedere quindi non succederà, lei non mi piace affatto dico, Aurora, tse.. Ma.
Lei fa la lolita, ballando sulla musica che viene da youtube sul suo portatile, continua a mettere pezzi dei Beach Fossils e dei Nouvelle Vague e beve ancora, è già ubriaca da non capire più niente e io le vado dietro. Balla in modo goffo di fronte a me, io seduto sul divano con la bottiglia in mano, un po’ irrigidito, lei si fa avanti.
La notte ti rende debole. Ma a lei la notte mica l’aveva fatta bella.
E lei è venuta su di me e ha cominciato a baciarmi con troppa lingua e troppa saliva, veramente disgustoso, tutto sommato però ho pensato che la forma dei suoi seni grandi non fosse affatto male dentro quel vestito e lei mi fa mmm mugugnando in modo forzato e viscido, ma orco giuda la notte mi fa debole e abbiamo scopato.
Sono durato un eternità un po’ perché tutto quell’alcool m’aveva ammazzato la sensibilità un po’ perché la nave continuava ad affondare – succede sempre così quando non mi piace una ragazza – più che un orgasmo è stato un parto. E lei muggiva e faceva gridolini acuti che mi facevano ammosciare tutto. Orribile.
Poi abbiamo aperto il divano letto e ci siamo messi a dormire io con la sensazione di avere fatto proprio la cosa sbagliata - talmente sbagliata che è dovuta succedere -  lei forse triste più di me.
E stamattina me la ritrovo avvinghiata addosso come un koala.
Meglio far finta che non sia successo niente.

Mi alzo dalla branda smarcandomi dal suo braccio bello in carne che odora di crema detergente per il corpo e vado in bagno. Mi lavo la faccia. Do un occhio al telefono , non mi ha cercato nessuno, che sollievo.
Lei dorme ronfando mollemente ancora mezza sbronza. Raccolgo le mie cose. Chiudo piano il portone di casa. Fuori. Finalmente.
Scendo le scale del condominio dal 5° piano a passo spedito verso il primo bar – caffè lungo in tazza grande arrivo – alla tromba del 2° piano una porta si chiude alle mie spalle.
Passi di donna dietro di me e quella voce.
- Fred? Sei Tu? Cosa ci fai qui?


sabato 9 aprile 2011

ZOE



(una storia breve di Emilio Brinis)




Il giorno in cui si  recò agli studios per firmare il contratto indossava dei vecchi blue jeans sbiaditi e stretti sul sedere, delle scarpe da ginnastica rosse e bianche ed il suo giubbino in pelle beige. I capelli biondi ossigenati le scendevano lisci sulle spalle. Lungo I corridoi incontrò quelle che a suo avviso dovevano essere altre attrici, magari ricche e famose; indossavano scarpe con i tacchi alti e collant, abiti corti e stretti, pettinate e truccate in modo seducente e impeccabile…erano proprio perfette, quasi finte. Non la salutavano, procedevano spedite e serie, come in ipnosi…non le piacevano.
“Beh, chi se ne frega” - pensò,-  “sono qui per un po’ di soldi, e magari per una volta sola può essere divertente”. 
Incontrò il manager che si sarebbe occupato di lei e firmò il contratto.
Scacco Matto”, che nome idiota pensò. Uscendo dagli studios osservò la Valley, la magnifica San Fernando Valley, con le sue grandi distese ed il cielo infinito e si sentì leggera, libera…serena come chi finalmente trova la soluzione del momento. Sorrise.
Prese la macchina e guidò e guidò, ascoltando musica americana sotto il grande cielo americano. Cantò. Poi tornò al motel e rise dello squallore della sua stanza...era in viaggio, e non voleva finisse mai. Quella sera uscì, bevve delle birre e si divertì. Fanculo a tutti quelli sfigati che lavorano otto ore al giorno per cinque giorni alla settimana, magari per pagare un mutuo o mantenere la famiglia...Pensava al futuro e vedeva lunghi interminabili viaggi in autostrada, vedeva la sua auto sfrecciare attraverso stati e confini. Niente progetti. Niente futuro. Vita e basta. Esistenza allo stato puro.
Il giorno del film si sentiva nervosa; aveva scopato con molti ragazzi prima, alcuni dei quali erano sconosciuti, ma questo non l’aveva nemmeno mai visto, non ci aveva mai scambiato una parola. E poi...farlo davanti ad una cinepresa...non le era mai successo, e un questo fatto un po’ la inquietava.
Ad ogni modo...Scacco Matto” era un gonzo ambientato in una sala da gioco di provincia; le attrici erano tutte ragazze molto giovani, gli attori un po’ meno. Non appena vide la sala pensò che non le sarebbe mai venuto in mente di fare sesso in un posto del genere; era squallida e triste, vecchia…un posto quasi fatiscente. Chissà perché non era ancora stata demolita.
Le due donne sulla cinquantina addette alla preparazione delle ragazze le sistemarono un po’ i capelli e la truccarono in modo lieve...entrambe portavano i capelli rossi colorati, acconciati attorno a dei bigodini di plastica, durante il servizio masticavano gomme o fumavano sigarette. Le ricordarono che durante le riprese, dopo essersi sfilata la gonna e aver tolto il top, avrebbe dovuto tenere i calzettoni bianchi al ginocchio. “Che scemenza” pensò.  Non si sentiva entusiasta del preambolo della nuova esperienza.
Conobbe l’attore con il quale avrebbe girato la scena di lì a poco: americano puro, viso non molto intelligente, palestrato e rasato...le si presentò esordendo con un paio di battute sceme. Non poté fare a meno di notare che era già in erezione. Era strafatto di Viagra e cocaina.
Il regista convocò tutta la troupe ed il cast per le ultime raccomandazioni, dopodichè iniziarono le riprese. Dal momento che la sua sarebbe stata la terza, andò a sbirciare la prima scena, da dietro le quinte. Due stalloni americani purosangue, muscolosi e rasati, uno dei quali portava il tatuaggio del corpo dei marines, si davano da fare con una ragazzetta minuta, acconciata quasi come lei. Attorno al letto si muovevano il cameraman, il tecnico delle luci e del suono, ed alcuni fotografi, tutti uomini, allontanandosi e avvicinandosi alla scena. Alcuni commentavano tra di loro, valutando l’interpretazione e la qualità delle fotografie, a voce bassissima. Erano per la maggior parte in erezione, e quella sera si sarebbero masturbati. Intanto i due uomini si davano da fare con la ragazza, ma non sembrava che lei si divertisse. La scopavano come macchine.
Scappò in bagno, dove nessuno poteva vederla, per farsi un po’ di coraggio. Cercò di convincersi a non pensare a niente, a nessuno. Cercò di scacciare ogni pensiero. Ed i conati di vomito.
Fu il turno della seconda ragazza. Poi il suo.
L’uomo iniziò a palpeggiarla sui seni e sul sedere, a leccarle il collo e le spalle senza concedersi una pausa per baciarla o rivolgerle una benché minima parola. Iniziò a spogliarla e a succhiarle i seni, poi a sua volta si levò calzoni e camicia. Il copione prevedeva che lui avrebbe mantenuto il cappello da cow boy e gli stivali texani…non era molto eccitante. Le sputò sulla fica, ci infilò un dito dentro e lo mosse in modo spasmodico, come uno stantuffo a ripetizione. Lei non si bagnava. Si diede da fare con la bocca sul suo cazzo, eretto dalle sostanze assunte. Poi passarono alla penetrazione.
Aveva già fatto sesso molte volte, ma questo…cos’era? Accoppiamento meccanico, telecomandato, brutale…quel cow boy la scopava con furia quasi animalesca. I fotografi scattavano, scambiandosi qualche commento; quanti occhi erano puntati su di loro. Quanti lo sarebbero stati. Il bruto continuava a muoversi avanti e indietro, dentro e fuori di lei, gemendo e gemendo rumorosamente. Anche lei gemeva. Fingeva. Non provava nulla, o almeno nulla di buono. Fissò per un istante la folla della troupe. Le venne in mente il fratello.
“Basta!” urlò singhiozzando. “Mettimelo nel culo e facciamola finita!”
Il cow boy eseguì l’ordine come un robot. Come un cazzo di soldato scelto. Entrò con un po’ di fatica ed iniziò a stantuffare  a tempo. Questa volta le bruciava. Faceva male.
Finalmente si staccò, la voltò e le venne sul volto.
La scena era finita; il cameraman ed i fotografi si ritirarono. L’attore si stese sul letto, sudato e sfinito. Ancora in erezione. Una bomba queste nuove sostanze. Lei corse nel camerino, si pulì il volto e la vagina con delle salviette di carta e si rivestì. Corse fuori della sala da gioco e corse fino a che non trovò un taxi che la riaccompagnasse al motel.



Pianse per tutto il tragitto e, una volta giunta nella stanza, si levò i vestiti e si ficcò sotto la doccia.
L’acqua scorreva calda sul suo corpo.
Fu una doccia lunga, lunghissima. Quando uscì si guardò allo specchio, iniziò a pettinarsi i capelli e riprese a singhiozzare. Si sentiva veramente di merda. Svuotata.
Uscì a comprare una bottiglia di whiskey e delle birre, poi tornò al motel. La stanza era veramente squallida, triste e deprimente. Posò le bottiglie sul tavolo. Sola. Quella notte bevve e pianse, pianse e bevve. Il suo grande sogno sembrava tramontare…sembrava un’illusione così sciocca, così…così…
Si svegliò che il sole era alto;  aveva un gran mal di testa e lo stomaco bruciava. Prese un’aspirina, raccolse le sue cose e lasciò il motel. Posto del cazzo.
Salì in macchina e mise in moto, partì. Accese la radio, che in quel momento stava passando la sua canzone preferita. La sua canzone, quella dei suoi sogni e dei suoi viaggi in macchina…aveva un suono diverso, era come una voce che non voleva sentire…una voce che le faceva male.
Si fece coraggio e guidò fino agli studios per ritirare il suo denaro. Fu accolta con estrema indifferenza; il manager la fece firmare e le mise in mano l’assegno senza nemmeno salutarla, poi la liquidò alla svelta. Era impegnato.
Nel parcheggio incrociò delle ragazzine; erano lì per un provino. (La macchina tritacarne non si ferma mai).
Lasciò la Valley e guidò per ore attraverso il deserto, senza meta e senza musica.  Trovò un motel e si fermò in una rivendita a comprare birra, whiskey e sigarette.
Alla deriva.
Il filmato fu un successo in Internet, con record di visualizzazioni in molti siti per adulti. Contrariamente alle aspettative degli esperti degli studios, il volto sofferente di quella giovane attricetta e le sue lacrime avevano attratto una moltitudine di spettatori di qualsiasi età. Il tam-tam fu enorme e rapido nella comunità dei pornofili. (La pietà del mondo era morta assieme a Dio).
Intanto lei continuava a vagare in balia del suo malessere, sola e senza idee, senza risposte, come una sonnambula. Una sera un cameriere la riconobbe tra i clienti del fast food dove lavorava. Lei uscì di corsa, come una fuggiasca.
Dopo qualche giorno fu la volta di un benzinaio..
Il manager provò a contattarla per una nuova offerta.
Non rispose.


mercoledì 9 marzo 2011

BISOGNO PRIMORDIALE




Man  Ray - Marquise Cassati

(anche nel suo salotto era primavera)

Mosche appaiate,
orgasmo segreto d’insetti
e gatti in calore lenti

Spine inserite con cura,
il jack deve entrare
là dove c’è scritto input

Spore sparse dagli alberi
in fiore,
persone che si accoppiano
gemendo nel vuoto
delle stanze chiuse

La forbice taglia la carta,
dalle tapparelle abbassate
lame di bagliore filtrano dentro,
corpi nudi in controluce.

giovedì 3 marzo 2011

COME IL CURRICULUM CHE NON SCRIVERAI MAI (PARTE 2)









Quell’ingresso aveva qualcosa di familiare nonostante fosse la prima volta che ci dava un’occhiata attenta, con la luce del giorno. C’erano foto di famiglia. Alle pareti un attestato di vendita di una moto d’epoca e due stampe in bianco e nero di Parigi; manco a dirlo la basilica del sacro cuore di Montmartre e la Tour Eiffel.
Una foto di lei da bambina che sorride sulla spiaggia, le sue labbra pronunciate già in fiore, gli occhi chiari illuminati dalla luce estiva solo un po’ sbiaditi per via della stampa dal rullino. Era proprio carina, pensava. E’ un peccato dopotutto mandare tutto a puttane come al solito. Ma bisogna.
Si stava perdendo ad esplorare i ninnoli di casa quando guardò l’ora sull’orologio da tavolo e si rese conto che doveva muoversi. Erano le otto e mezza. Era tardi. Doveva correre a prendere Fred.

S’erano accordati la sera prima, quando se l’era telata in fretta e furia da casa di Aurora, lasciandosi alle spalle tutta quell’aria noiosa che s’era creata a quella benedetta cena fatta tutta di discorsi imperniati sulla retorica da studentelli pusillanimi di filosofia che citano Marx a colazione e si tengono le chicchette su Heidegger per le cene fra colleghi in modo da dare almeno l’impressione di essere belli svegli o comunque darsi un tono con i presenti. Capite da soli che a sciorinare stronzate su Nietzsche non gli è mai riuscito di scopare proprio a nessuno eccettuati forse i casi di piccoli capetti della rivoluzione di ogni epoca; tipi infimi con le mani lisce e tanto buontempo. Nicola sapeva bene questo, conosceva tutti i nomi dei capetti-altern-collective del suo tempo e nella sua testa s’immaginava che perfino il buon Karl avrebbe messo fine a quella sfilza di conversazioni fondate sul niente con un risoluto pugno sul tavolo chiedendo silenzio e un altro bicchiere di buon vino renano.
Ma solo gli stronzi c’hanno i megafoni in mano; la maggior parte degli uomini con le palle se ne va avanti a testa bassa. E non pensava affatto alla gente perbene, quella non c’entra, avere le palle non ti fa necessariamente essere una persona rispettabile. Direzioni. Nicola s’era incantato nel piccolo atrio a pensare, lento, nonostante l’ora.

Il suono di un colpo di clacson che era filtrato dalla strada attraverso i vetri del balcone del soggiorno lo aveva fatto riatterrare nella realtà.
Afferrò da terra la borsa e il giaccone appeso, corse di nuovo attraverso il corridoio verso la camera, gettò tutta la roba per terra. Appoggiando il foglio ad una mensola, per usarla come piano per appoggiarsi a scrivere fu investito dai rimorsi – Che cazzo le scrivo ora – fissava ancora le decine di foto alle pareti, nel momento in cui la sfera della penna aveva toccato la pagina ogni dubbio era scomparso. Bisogna.
Le scrisse un bigliettino sommario, qualche decina di parole veloci in stampatello senza pensare - è stato bello – senza grande passione – ho ancora i tuoi succhi su di me – etc, stronzate – meglio se non ci vediamo più - .

A Nicola lei piaceva, ma non voleva prendersi lo sbattimento di sceglierla. Era piccolina e dolce, una ragazza da paura. Era stato proprio incantevole aver passato la notte assieme. Ma perché prendersi la briga di farlo accadere ancora? Era perfetto così.
E in quel momento non era in grado di tirar fuori altri pretesti quindi chiuse il foglio in quattro e ci scrisse sopra “per S.” posandolo sulle coperte sfatte del letto a due piazze, ci appoggiò affianco anche tutti i cioccolatini che aveva trafugato da casa d'Aurora, saranno stati una quindicina in tutto.
Ci sono mattine nelle quali non ti alzeresti mai dal letto, e quando stai quei due minuti in dormiveglia ancora sigillato dentro le lenzuola, la sveglia che suona monotona il suo canto di condanna, e pensi alla buone ragioni che avresti per startene lì l’intera giornata e poi finisci a convincerti che i doveri da sbrigare sono una delle cose che ti fanno sentire meno l’inutilità di questo mondo e allora scendi dalla giostra e metti i piedi a terra (e magari fuori piove) ma vorresti davvero poter girare i tacchi e rificcarti sotto le coperte finché tutto questo delirio non sia finito e poi ci sono altre volte nelle quali invece vorresti sgattaiolare via dal materasso molto prima che il sole si sia alzato, prima che la notte sia finita; toglierti dai coglioni al più presto e non dare spiegazioni, trovare la forza di farlo mentre lei dorme ancora, ma ci vuole manico per andare fino in fondo (e in genere il fatto di essere ancora mezzo sbronzo di gin tonic non aiuta molto a portare a termine con successo un’operazione del genere), devi contare la comodità del giaciglio e la stanchezza.
Il più delle volte ti giri dalla tua parte, la senti che dorme e pensi – fanculo non mi alzo, al buio inciamperei sicuramente fra le sue scarpe, e poi dove ho lasciato le chiavi, e poi sono le quattro etc.. – trovi migliaia di ragioni che ti tengono steso lì, così punti la tua sveglia alle sette e ti metti a dormire e preghi dio di essere capace ad alzarti la mattina che viene e, se proprio ti dovesse andare di lusso, di riuscire a chiuderti la porta del suo appartamento  alle spalle senza averla svegliata.




  
Licenza Creative Commons
HIT PARADE FEVER by Edoardo Canella is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non opere derivate 3.0 Unported License.