giovedì 26 gennaio 2012

NOTTE D'ACCIAIO AD ABUJA.. E TANTA MUSICA DI MERDA




(un racconto a puntate, di Emilio Brinis)
Seconda Puntata





Abuja, Constitution Avenue






La fase alcolica dell’esuberanza era passata, fine della baldoria, mi sentivo stanco. Avevo voglia di tornare a casa, di andare a letto e dormire. Ma si era in tanti, e penso qualcuno avesse intenzione di caricare. Ho ballato un paio di canzoni Afro beat e sono finito seduto al bancone del bar, con la sigaretta in bocca e lo sbadiglio a mitraglia, per ordinare un Jack Daniel’s. So che, viste le condizioni, può sembrare una scelta scema, ma è l’unica cosa che mi è venuta in mente. Poi, sono abbastanza allenato con i superalcolici.

Mi osservava dall’altro lato del bancone, ammiccante, provocante, sorridendo e mandandomi baci. Leccandosi le labbra. Io cercavo di non farci caso, sapevo che sarebbe stata una gran seccatura. Volevo solo
andare a dormire. Nel frattempo aspettavo che qualcuno degli altri si decidesse ad andare, e sorseggiavo il mio whiskey. Si è fatta avanti, e in quel momento è iniziato il casino.
Si è alzata dal suo sgabello al bancone del bar per muoversi verso di me, guardandomi con occhi maliziosi e sensuali. Con loro è sempre lo stesso copione che si ripete un numero infinito di volte con un numero infinito di ragazze. Puoi variare i locali in cui esci, magari andare in piscina al pomeriggio quando non si lavora, al campo di tennis, ma è sempre lo stesso...sempre uguale.
Vedono noi bianchi e vengono a vendersi. Opportunità di guadagno facile e spesso indolore, prostituzione o sesso a pagamento, il concetto è quello. E non importa che tu sia giovane e bello, benvestito, simpatico, non islamico, educato…qui non importa niente, sei bianco ergo hai i soldi. Una scopata è un guadagno. Fine. Tanto meglio se duri poco. E te le devi tenere in casa fino alla mattina dopo.
Non sono stato proprio un gentiluomo, ma l’ho bloccata prima ancora che si sedesse accanto a me. Le ho detto che mi lasciasse in pace. Che non cercavo compagnia. Che ero stanco e volevo stare solo. Che andasse a rompere il cazzo a qualcun altro. Di gente ce n’era.
Beh…almeno sono stato schietto, sincero. Non sono uno che illude le donne, io. Nemmeno gli uomini.
Lei se l’è un po’ presa, del resto non le ho neanche dato il tempo di aprire la bocca per dirmi “Ciao!”, o “Come stai?”. Ma per come la vedo io questa è solo correttezza portata all’estremo.
Si è dimostrata un po’ offesa, seccata, ma non penso di averla ferita nel profondo.
Infatti…non se n’è andata, e vicino a me si è seduta lo stesso.
Mi ha chiesto una sigaretta.
Glie l’ho data. Una Rothmans.
Mi ha chiesto di offrirle un drink.
Ho detto di no.
Mi ha chiesto perché.
Perché no. Voglio restare da solo. Andare a casa. Dormire.
Uno solo, anche una lattina di birra.
No.
Mi ha chiesto qual è il problema.
Il problema sei tu. E’ questo casino. Questo locale di merda.
E mi ha mandato a cagare. Nella sua lingua, il dialetto hausa. Ma il fanculo è sempre una delle prime parole di una lingua nuova che si imparano.
Ho acceso una sigaretta. Sempre della stessa merdosissima marca di prima.
Qui bisogna consumare in fretta il pacchetto, prima che diventino troppo secche. E amare.

Vedevo il Mitico ballare veloce. Sempre più veloce. Una turbina.

Lei è rimasta seduta lì dov’era. Dura come un macigno. Ha parlato con il barista, che dopo qualche attimo le ha servito un Jack Daniel’s. Doppio. Senza ghiaccio. On the rocks.
Io ho continuato a fumare e ho chiesto il conto. Era ora di andare. Sul serio. Ero esausto. Fanculo gli altri.

Ho chiesto il conto. Avevo consumato un solo whiskey. Singolo. Senza il ghiaccio.
Nel conto ce n’erano due. Due maledettissimi whiskey. La stronza si era messa d’accordo con quell’idiota del barista di addebitarmi la sua consumazione senza chiedermi il permesso. Un accordo tra nativi. Non si fa.
Pensavano che non me ne sarei accorto. Che avrei pagato qualsiasi cifra scritta su quel foglio del cazzo. Tanto, sono un bianco. Un oybo.
Un vecchio trucco delle prostitute del posto.
Ma si dà il caso che per sgamare un vecchio trucco ci voglia un vecchio cane. E io, guarda caso, sono un vecchio cane. Li conosco bene i trucchi, quaggiù. Li conoscevo bene anche a Padova. Sono un professionista della notte. Un vero bastardo.
Ho perso le staffe. Non ci ho capito più niente. E sono iniziati i guai. I fuochi d’artificio.
Al barista ho detto che era uno stupido coglione, chiedendogli se era scemo o se cercava di incularmi.
Gli ho detto che non avrei pagato nulla. Che non mi faccio fregare così, dal primo coglione dietro un banco in combutta con la sua amichetta puttana.
Gli ho detto che volevo parlare con il direttore di quel cazzo di posto, con il titolare. Che l’avrei fatto licenziare.
Altrimenti avrei chiamato la polizia. La forze armate. L’ONU. Il Generale Mongo.
A lei ho detto che era una troia. Che quel drink non glie l’avrei offerto mai e poi mai. Piuttosto un calcio in culo. Che non avrebbe dovuto rompere i coglioni a me. Che le avevo detto, le avevo chiesto di andarsene, di lasciarmi in pace.
Che era una stupida puttana. A stupid bitch.
Ho preso un boccale a caso dal bancone e le ho rovesciato addosso il contenuto. Una birra verdastra e maleodorante. Chissà da quante ore era lì.
Il boccale l’ho scagliato sul pavimento dietro il bancone, giusto per fare contento quel ladro imbroglione di barista.
E’ esploso come una granata. Vetri scintillanti ovunque.
E niente, questo è quanto.

Nella teoria dei lavori con l’uso di esplosivi si impara che è l’esplosione di un detonatore che innesca le cariche di dinamite e deflagranti per frantumare un banco di roccia. Una detonazione. Si propaga attraverso la miccia detonante e, raggiunte le cariche, salta per aria tutto. Al posto di una collina trovi un buco. E tanta roccia di granulometria ridotta ammassata in un punto facilmente raggiungibile da una pala per il carico nei camion. Naturalmente nel caso in cui i minatori sappiano fare bene il proprio lavoro.
Il detonatore è una cartuccia di plastica grande più o meno come un accendino. Una stronzatina grande così. Il suo scoppio scatena un fenomeno di dimensioni impressionanti. Un disastro per la natura. Impatto ambientale a mille.
Quel che ho fatto io è paragonabile all’innesco di un detonatore. Ho dato il via.
C’è stato come un momento di quiete dopo la mia sfuriata da uomo bianco schizzato, ed il barman, umile e servile, con la sua camicetta bianca ed il papillon nero, continuava a chiedermi scusa, a dire che era stato un errore, che aveva sbagliato a battere il conto alla cassa. Che non voleva fregarmi. Il classico errore di battitura, come si definisce nel gergo tecnico, niente di più.
Perdono, capo.
Sorry oooh, Oga.
No wahalla, Master.
Mi implorava di non denunciarlo al titolare, di non chiamare la polizia. Di lasciare stare l’esercito.
Non aveva capito che stavo bluffando.
La ragazza era scomparsa.

Penso che molta gente mi stesse osservando, perché non mi sono allontanato, non mi sono messo a cercare gli altri e non mi sono diretto verso l’uscita. Sono stato lì, fermo come un idiota. Paralisi è il termine tecnico.
L’errore in tutta la sera, l’unico errore che ho commesso, è stato quello. Restare lì quei due minuti, non filarmela alla svelta.
Non è stato ignorare il sonno e la stanchezza, bere come pochi, fumare erba fino a non capire più niente, e uscire portandomi dietro un coltello. No. Quelle sono cose che qui faccio regolarmente. Sono la routine. L’errore è stato non filarmela subito. Non dire al Mandriano che avevo fatto una cazzata. Non cercare Lo Sfregiato per darmi man forte. O magari un taxi.

E’ ricomparsa.
Era stata al bagno, vicino all’uscita. Forse a sciacquarsi quella merda di dosso, o a parlare con qualcuno.
Già, a ripensarci deve proprio essere andata a parlare a qualcuno, a cercarlo. E’ tornata. Non sola.
Il tizio con lei era un orango vestito a festa. Di quelli che girano per i villaggi, tra le galline e le baracche in legno e lamiera, a fare i fighi con le scarpe a punta, il vestito colorato cucito dal sarto, il bastone, il cappello da cowboy, e l’orologio, gli anelli e le collane color oro. Una Toyota parcheggiata chissà dove.
Un po’ ridicolo, sì, ma grosso. Categoria Pesi Medi.
Venivano verso di me, e lei mi indicava con occhi furiosi.
Mi indicava con occhi furiosi e gli parlava. Avanzavano come Bonnie e Clyde.
Lui mi fissava con lo sguardo algido di chi è cresciuto per le strade del Bronx. O di Harlem. O di qualche altro posto di merda in Africa. Un duro. Come nei film. Mac Facciadiculo. Ad ogni passo si avvicinavano, si facevano sempre più grandi. Erano piazzati giusto tra me e l’uscita, e mi bloccavano l’unica possibile via di fuga. A meno che non volessi lanciarmi giù dalla finestra, dal quarto piano.
Ma a quello non ci ho pensato proprio. Sono qui in Africa da un anno e mezzo, e sono un duro. Un cazzutissimo figlio di puttana. Giovane, ma super corazzato.
La gente li faceva passare, faceva largo, ed infine mi sono arrivati davanti, vicino al bancone.
Io avevo già la mano in tasca. Avevo intuito che il mio piano di tornare a casa al più presto avrebbe subito una variazione. Un cambio di programma.
Mi si è piazzato davanti e come prima e come prima cosa si è tracannato un lungo sorso dalla sua bottiglia di birra. Una Star da 66. Forse per farsi coraggio.
Non ho potuto fare a meno di notare che  mancava di un incisivo sull’arcata superiore e che sul volto aveva i tagli tipici degli yoruba di Lagos. Gente pericolosa. La ragazza urlava rivolgendosi a me. Isterica dura. Io non la ascoltavo nemmeno. Mi stavo concentrando. A lui basta un pugno per ammazzarti.
Si è rivolto a me chiamandomi “Bature”, che vuol dire uomo bianco, e mi ha chiesto per quale cazzo di motivo avevo maltrattato la sua sorella. Qui sono un po’ tutti fratelli e sorelle. Societé tribale.
Era minaccioso ed ostile, visibilmente incazzato. Mi ha chiamato “fucking man”. Altro segno di pericolo.
Io ho cercato di spiegargli che sua sorella si era accordata con il barista per farmi pagare anche il suo conto, senza interpellarmi e senza il mio consenso.
Non mi aspettavo che mi stesse ad ascoltare o che volesse capire quel che gli dicevo.
Lei continuava ad urlare come un’arpia.
Con la conversazione non saremmo arrivati da nessuna parte. I presupposti mancavano del tutto. Mi sentivo demotivato.
Scazzato, ho mandato a fanculo entrambi. “Waka” è il termine che si usa qui. Il gergo indigeno.
Silenzio.
Tensione.
Rabbia.
Poi un casino pazzesco. Come un boato, un’esplosione.

Le urla si sovrapponevano a quella musica di merda.



(Continua...)




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