martedì 31 gennaio 2012

NOTTE D'ACCIAIO AD ABUJA.. E TANTA MUSICA DI MERDA




(un racconto a puntate, di Emilio Brinis)
Ultima Puntata


Alba, Abuja



Ha alzato la bottiglia tenendola per il collo.
Non ha fatto in tempo a batterla contro il bancone del bar per romperne l’estremità che io l’avevo già accoltellato in pieno petto. Un colpo. Il  tempo di un battito d’ali di una farfalla a Maggio. Non so come ho fatto ad essere così cazzutamente veloce con il coltello. Non lo avevo mai usato prima. Io non ero mai stato un assassino.
Ma vedete, vivo in un container di 15m² in un campo in mezzo alla savana, mi sveglio tutti i giorni alle 5, mangio il cibo che mi mandano in una gavetta di ferro ed il lavoro è una guerra. Con chiunque. Ogni giorno.
Forse tra i due la vera bestia ero io.
E pensare che a 16 anni ero pacifista.

Mi ha guardato per un istante, incredulo. Poi è crollato. Era morto ancora prima di toccare terra.

E’ rimbalzato sul pavimento. Ha fatto un rumore da sacco rovesciato.
Poi si è scatenato l’inferno. Una situazione spaventosa a ripensarci. Potevo lasciarci le penne, lì dentro.

Per raggiungere l’uscita mi sono dovuto fare strada a coltellate, colpendo chiunque mi ostacolasse. Come nella foresta, quando avanzi a botte di machete.
I vetri si infrangevano attorno a me, brillavano per un istante come fuochi d’artificio, mi colpivano, mi tagliavano. Volavano calci e pugni, spintoni, colpi. Io barcollavo, cadevo, cercavo di ripararmi e allo stesso tempo continuavo a colpire. A tagliare. L’odore ferroso del sangue era nell’aria. Tutto attorno a me. Odore di ferro bagnato misto barbabietola.
Forse ho ucciso qualcun altro prima di riuscire ad uscire. Potevano farsi i cazzi propri.
All’uscita mi aspettavano i buttafuori, entrambi formato libreria modello Billy di Ikea, ed è stata dura passare per di là. Uno di loro aveva una di quelle torce con il manico lungo. Quante me ne sono prese. I danni me li hanno fatti quei due. Una bella fortuna aver avuto ancora il coltello e la presa salda. Mi avrebbero ucciso.
Ricordo un colpo in testa con una bottiglia di vetro che mi ha annebbiato la vista dal male, un buttafuori a terra per una coltellata alla gamba, e l’odore del sangue anche lì. Poi un’altra coltellata, non ricordo dove. Un colpo feroce, rabbioso, che ho inferto urlando. Il pavimento in marmo bianco diventare rosso.
Poi le scale. Che ho sceso rotolando e barcollando. Quattro piani.
Devo essermi rotto una o due costole. Ma sono stato bravo a non farmi ammazzare.

Sono uscito in strada, e per fortuna lì non c’erano altri ostacoli. Non c’era nessuno. Solo la  città, e la notte buia, che mi ha nascosto. Mi sono trascinato per le vie a caso, cercando di allontanarmi il più possibile da quel palazzo maledetto prima che mi inghiottisse, poi mi sono fatto guidare dall’odore di cherosene per arrivare qui. In un deposito di cisterne.
C’è un piccolo piazzale asfaltato chissà quanti anni fa, con buche fonde come piccoli crateri, ed una pompa di benzina. A ripensarci non sono capitato male. Nel complesso è un posto pittoresco, di quelli che piacciono a me; tipo zone industriali, sfasciacarrozze, cimiteri di auto, officine, cantieri. Li trovo affascinanti; suggestivi nella solitudine e desolazione in cui giacciono.     
       
E’ tardi ed inizia a fare chiaro; tra un’ora o poco più inizierà a sorgere il sole. Sono messo male. Anzi, sono  a pezzi. Quando si dice in un mare di merda. Fatico a muovermi. Non riesco a camminare. Le botte le sto sentendo tutte a scoppio ritardato. Qualche taglio sanguina ancora.
Non ho idea di dove siano finiti il mio telefono, il portafogli, il pick up bianco nuovo di zecca, e soprattutto i miei amici. Forse conoscevano quel vecchio proverbio che dice “E’ consigliabile non viaggiare con un morto”, e l’hanno applicato alla lettera. Come dar loro torto?
Sono rimasto solo, a piedi, con le tasche vuote e non ho idea di dove mi trovo.
Ho anche perso, o forse finito, quelle sigarette del cazzo, le Rothmans Light.
Sono solo, solo e ammaccato, e aspetto l’alba. Cerco di recuperare le forze. Almeno un po’.
Chissà cosa direbbero i dirigenti, loro che non volevano lasciassi il campo presso la diga, vedendomi qui, in queste condizioni; l’insubordinato, l’evaso…l’ammutinato del Bounty. Magari useranno la mia storia come monito per le nuove leve. Guardate cosa è successo a quello lì. Era un ribelle.
E pensare che anche quei due coglioni dei miei vicini di casa, Tony Roma e Montalbano, ci hanno sempre considerato dei pericolosi, evitando sempre di uscire con noi. He…

La verità è che mi sono cacciato in un bel guaio.
La verità è che qui la gente è parecchio mattiniera ogni maledetto giorno, e che, non avendo alcun posto di preciso dove andare, se ne vanno un po’ dappertutto. Anche nei merdosi depositi di cisterne e benzinai la domenica mattina. Magari le pompe perdono e ci facciamo un litro da vendere.
La verità è che qui le notizie girano con il tam-tam, di bocca in bocca, di auto in auto, di vicolo in vicolo, con una velocità ed una capacità di diffusione sorprendenti. Qui sanno sempre tutto. Non hanno avuto bisogno di inventare Internet o le telecamere a circuito chiuso. Si sarà ormai sparsa per tutta Abuja e per tutte le baraccopoli che la circondano la notizia di un bianco che ieri sera ha ucciso uno di loro con un coltello e ne ha feriti chissà quanti in un locale fighetto vicino all’Hilton. La prima persona che mi vedrà capirà all’istante che sono io quel bastardo.
Farà casino. Ne chiamerà altri.
Qui i bianchi non sono molto popolari. Figurati quelli che tirano di scherma.
La verità è che qui avvengono ancora i linciaggi.
Gli hausa girano con il coltello a serramanico. I foulani con il machete, sin da bambini. I musulmani con un bastone tipo frustino. I soldati con fucili d’assalto modello AK-47. I cacciatori con carabine fatte in casa coi tubi da idraulico, con fionde, mazze, giavellotti. Con cani magri e famelici. E poi, sparsi un po’ dappertutto, specialmente agli angoli delle strade, ci sono pietre, cocci di vetro, calcinacci, chiodi arrugginiti, barre d’acciaio al carbonio. Nell’evenienza.
Dovrei continuare a scappare, come Joe della canzone di Jimi Hendrix. Ma non ce la faccio. Sono distrutto.
Ad ogni modo, il mio Opinel No. 8 è ancora qui con me, fedele come il migliore amico dell’uomo, sempre con me come un anello nuziale. Edizione limitata con lama in ferro a punta di lancia. Appuntita, ruggine ed affilata come un rasoio da barbiere. Ora che da utensile si è trasformato in arma, è ancora più figo. Il manico in legno è scuro di sangue secco. La lama è completamente arrugginita. Quelli che non ho ucciso o ferito gravemente si saranno presi il tetano o qualche altra malattia. Qui i vaccini non se li fanno.
E fortuna ha voluto che, anche se quelle sigarette del cazzo sono finite chissà dove, l’accendino mi sia rimasto in tasca. Quando arriveranno, se le cose si metteranno veramente male, con tutta questa benzina faremo un bel botto. Daremo inizio ad una nuova era.

C’è una gran pace qui, in questo momento. Il silenzio è rotto soltanto dal canto dei grilli e dei primi uccelli mattinieri. Stranamente non passano macchine. Magari senza la presenza dell’uomo questo sarebbe un posto migliore. O magari l’abbiamo smerdato noi.
Ricordo una ragazza conosciuta quando ero ragazzino, più o meno ai tempi delle medie La Figlia del Benzinaio, come la chiamavamo con gli amici. La vedevo quando andavo a fare il pieno con papà alla Tamoil sulla Statale 11.
Era nel piccolo ufficio prefabbricato che leggeva o faceva i compiti.
Una teenage queen ai miei occhi. Una gran figa.
Quanto ho sognato di scoparmela. Non ci siamo più visti, e non ho idea di che fine abbia fatto. Spero solo che in questo momento se la passi meglio di me. Ma non ci vuole molto.

Mai nella vita sono stato tanto vicino alle urla di John Frusciante, mai tanto vicino ai suoni graffiati sulla chitarra sofferente e all’abbandono che trasmettono. L’abbandono di un essere umano lasciato a se stesso, senza via d’uscita.
Ora finalmente posso capire, e tutto mi appare chiaro. Riesco a comprendere, ad entrare nel motivo e nella spiegazione. In questa avventura satura di sangue e di follia, nulla ha avuto un senso, e tutto è avvenuto così, casualmente. Questo è il senso.
La spiegazione è che non ci sono spiegazioni.
La morale è che non esiste mai una morale.
Le cose non vanno mai come vuoi tu. Come credi che dovrebbero andare.
Le cose succedono e basta. Soprattutto quando ci sfuggono di mano. Quando entrano in gioco le cosiddette variabili aleatorie, scatenando una concatenazione di cause ed effetti. Di azioni e reazioni.

Nella teoria dei lavori con l’uso di esplosivi si impara che alcune cariche possono non esplodere. Succede se alcune connessioni tra le micce detonanti non  sono fatte a regola d’arte. Se i nodi non sono del tipo piano. Lo stesso accade se i relays non sono collegati bene.
Le corde detonanti possono tagliarsi.
Ma il detonatore, quello scoppia sempre.
E questo è quanto.
Il mio ultimo pensiero felice è dedicato alla bellezza. Rivedo immagini del mondo che ho lasciato un anno e mezzo fa, quando ero ancora una promessa della gioventù post-coloniale.
Ora aspetto l’alba. Dovrò essere forte.
Sarà un’alba tragica, disperata…un’alba rossa di sangue.
Comunque vadano le cose, io non me ne andrò solo. Almeno un paio di questi coglioni me li porto dietro.


Dedicato agli amici con cui ho trascorso giorni e notti indimenticabili in Nigeria.
PS: non è vero che in Messico ho mangiato dei tacos farciti con carne umana!


Nessun commento:

Posta un commento

Licenza Creative Commons
HIT PARADE FEVER by Edoardo Canella is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non opere derivate 3.0 Unported License.