sabato 21 gennaio 2012

NOTTE D’ACCIAIO AD ABUJA…E TANTA MUSICA DI MERDA





(un racconto a puntate, di Emilio Brinis)



Lo Zuma Rock, direttrice Abuja-Kaduna





Ricordo una storia letta in gioventù, una ballata, il racconto di un viaggio di morte intitolato "L’uomo del grande Nord". Al tempo non avrei mai potuto immaginare che…ma mi solleva pensare che in questa lurida faccenda io non ho colpe. Non grandi colpe almeno…
E poi…sono stato veramente svelto…veloce come un ninja impazzito.
Questa storia, per chi mai la ritroverà, non è né uno sfogo né tanto meno una confessione in extremis. E’ la mia storia. La storia di una notte d’acciaio e tanta musica di merda. Forse della mia ultima notte. Di un gran casino.
E’ la mia ballata. Il mio canto di morte. Scritto con il cherosene ed il sangue.

Signori, come si diceva in Marina…fuoco alle polveri!



Per noi stronzi che lavoriamo quaggiù, il pay-weekend è l’unica occasione nel giro di un mese per godere di un fine settimana come quello dei lavoratori occidentali. Con il sabato e la domenica liberi. Festivi. Si, si chiama pay-weekend, ed inizia con il giorno in cui gli operai vengono pagati, l’ultimo venerdì del mese...poi tutti a casa fino a lunedì.
Loro tornano dalle famiglie, nei loro villaggi, a sputtanarsi i soldi in telefonini e altre stronzate d’importazione, a farsi belli imitando i rapper stile yankee delle soap opera, noi ci riposiamo un po’ e per un paio di giorni ce la prendiamo comoda. Niente di particolare, due chiacchiere al club, una birra, una partita a biliardo.
Le altre settimane lavoriamo fino al sabato sera, a volte la domenica mattina…vita da cantiere.
Quaggiù con il lavoro ci facciamo un culo grande come una casa. Forse anche di più. Ma ci sta, se non altro data la desolazione del posto in cui viviamo.

L’esperienza, la formazione, la gavetta, l’importanza di vedere le cose da vicino. I grandi cantieri, altro che edilizia. Queste erano le belle idee di cui avevo piena la testa quando ho deciso di venire all’estero, quando ho iniziato a mandare i curriculum, il giorno del colloquio, durante la visita medica, ed erano giuste. Avevo centrato l’obiettivo. Per una volta avevo le idee chiare. Un’ eccezione per i miei standard.. Avessi saputo che sarei finito in queste condizioni, ferito e fuggiasco, e che probabilmente la storia potrebbe concludersi qui…beh, credo che l’avrei pensata un po’ diversamente. O forse no…chissà. Sono sempre stato un incosciente. Un avventuroso. Già.

Sono arrivato qui ad Abuja ieri nel tardo pomeriggio, dopo un viaggio di due ore e passa attraverso la savana, i villaggi lungo la superstrada Abuja-Kaduna ed i grandi cantieri stradali, con il mio pick up nuovo di concessionario. Toyota Hilux. Sdoganato da Lagos dieci giorni fa. Bianco come l’avorio. Un po’ ingiallito dalla polvere della savana, la laterite secca, ma quella è inevitabile. Con i battistrada delle gomme profondi come quelle dei rally e la trasmissione 4x4 funzionante…il giorno in cui me l’hanno assegnato, consegnandomi le chiavi, mi sono sentito come se avessi appena ricevuto qualcosa di sacro. Ne avevo quasi soggezione. Io prima guidavo un rottame con i fili di ferro che uscivano dalle gomme e la carrozzeria fracassata. Tipo quella jeep dell’ONU abbandonata all’angolo di una via a Lagos. Solo che quella era anche stata bruciata. Missione di pace in territorio ostile.
Alle porte della città, nei pressi della baraccopoli principale, ho congedato l’autista, Ishaku, e ho guidato io fino al campo. Se la starà ancora spassando con i soldi che gli ho lasciato. Un buon diavolo. Un musulmano che si spara 4 birre da 66 sotto una tettoia e lancia il pick up a 180 all’ora, di notte, sulla strada buia e devastata dalle buche. Qui lampioni zero. Davvero un visionario della guida.
Era da un mese e mezzo che non tornavo in città; tra una palla e l’altra non ero più riuscito a muovermi da quella diga del cazzo in mezzo alle montagne. Questioni di lavoro, di autorizzazioni e di stanchezza.
Anche questo viaggio non è stato del tutto autorizzato; anzi, tecnicamente sono scappato. Evaso. Mi costerà forse una lettera di richiamo per insubordinazione o per abbandono del posto di lavoro…ma io avevo organizzato tutto alla perfezione. I capi poi hanno cambiato idea. Girato le carte in tavola. Fanculo.
Tanto la lettera di richiamo non conta niente. Ora poi…

Qui ad Abuja sono sempre stato bene, ed ogni volta che ci torno mi sento meglio. Felice. Rilassato.
Sapete, il ritorno…è ritornare; come quella canzone, “Take me home”. Stare lassù tra le montagne è duro. Molto. Questione di solitudine, di silenzio, di abbandono. Amen.
Qui invece…ritrovo sempre il mio piccolo appartamento con i muri che ho abbellito con dei disegni colorati nel primo periodo, quando ero l’unico giovane del campo, e le conchiglie che pendono dal soffitto, il giardino dove avevo appeso l’amaca per leggere, i miei colleghi e gli amici…sono arrivato che mi aspettavano al club, con una Heineken ed un pacchetto di Rothmans Light pronti per me.  Le Rothmans; che sigarette del cazzo.
Ed è iniziato subito il circo. Come sempre.

Non che sia mai stato uno che si tirava indietro, intendiamoci, ma qui si esagera. Si gioca duro. Sarà l’Africa, che ne so, la desolazione, il fatto che tutto và bene…non c’è mai limite ai festeggiamenti e alle baldorie tra cani di cantiere. Tra pirati.
Abbiamo iniziato a casa mia – era chiusa da tutto quel tempo e puzzava di legno vecchio e polvere, uno schifo – come ai vecchi tempi, prima che mi trasferissero. Poi una siesta al bush bar, da Mama Africa. Sempre adorato quel posto. Uno spiazzo di terra secca lungo la strada statale, un mercato di artigianato locale, tre baracche di legno e lamiera, tavoli e sedie di plastica bianca. Nel retro, altre due baracche allestite con tendine e materassi, in cui puoi farti una scopata per 5000 Naire. 25 euro circa. Il bush bar.
 Noi quattro, “The Abuja’s Rejects”, come avevamo deciso di chiamarci in una serata…diciamo… particolarmente ispirata. Il Mitico, Il Mandriano, Lo Sfregiato ed io, Il Vecio.
Non ricordo di preciso quanto siamo stati lì, tra i cani e le palme, a bere birre, ma quando ci siamo incamminati verso il campo ero già fuori combattimento. Di sicuro anche gli altri. Sbadigli continui. Una sigaretta dietro l’altra. Il passo elastico, indeciso. Ed il sole doveva ancora tramontare.
E’ una delle lezioni dell’Africa: per quanto fatto tu sia, devi andare avanti, non mollare, non fermarti. Devi rimanere attivo, è l’unica soluzione per non crollare a letto e poi svegliarti il giorno dopo alle cinque del mattino come un pirla.
Devi lasciarti andare a quello che succede, e soprattutto, non opporti al tuo stato fisico. In Italia non ce l’avrei mai fatta. Ma figurati.
Qui è così, nulla ha mai importanza. Valgono tutto ed il contrario di tutto.
Perfino ora, che tremo come una foglia, scatto ad ogni fruscio e fatico a reggere la penna….

Ad ora di cena c’era la festa del cantiere, presso il gazebo (“Payotte”, come si dice qui) dietro il club, con griglie fumanti, musica e alcool a volontà. Vino, birre, long drinks o super alcolici…tutto gratis. Una figata.
Per l’occasione il capo campo aveva pure invitato un giovane dj e delle ballerine.
Uno spettacolo anomalo: quel cazzone al posto di suonare il suo merdoso reggaetton si è perso in comizi sulla Nigeria, la malaria, noi bianchi che siamo degli stronzi con loro, eccetera eccetera. Poi si è deciso. Forse qualcuno deve averlo minacciato. Suona, o non ti paghiamo. E le ballerine…probabilmente delle prostitute pescate al Capitol Lake o in qualche altro bordello in zona. Non erano lì solo per ballare diciamo.
Comunque è stata una cena divertente, ed è stato bello ritrovare i miei vecchi colleghi; con loro, salvo qualche piccolo battibecco, sono sempre andato d’amore e d’accordo. In diga invece…ci odiamo tutti.

Poi…devo essermi distratto, o forse addormentato; quel che ricordo è che eravamo, sempre noi quattro, a bordo del mio pick up, con la musica a palla, che sfrecciavamo ad una velocità da nausea verso Abuja. In macchina facevamo casino, fumavamo, ballavamo e ci agitavamo sui pezzi sparati dall’autoradio. Urlavamo a quei poveri coglioni dei passanti e ci sporgevamo dai finestrini. Anche Abuja e le luci dei suoi palazzi ballavano e si agitavano, si contorcevano sensuali, mi invitavano seducenti e minacciose. Come le sirene che adescano i marinai.
Va tutto bene Vecio, non puoi fermarti ora…

…la compagnia nel frattempo si era allargata; qui si esce tutti quanti in branco, come durante la leva…

Eravamo seduti al tavolo di un cocktail bar in cima ad un palazzo, sulla terrazza con vista sulla città. Sorseggiavo un Singapore Sling osservando le strade, le automobili, gli altri palazzi…Abuja era bellissima ieri sera. Splendeva di mille luci colorate, l’aria non puzzava tanto, le palme ed i giardini erano solenni nella loro millenaria immobilità, esotici e misteriosi, si sentivano tutte le musiche di tutte le macchine per strada. Le frenate. Le sgommate. Qualche urlo di qualche incazzato.
Il mix di alcolici continuava a lavorare di brutto, ci dava dentro pompando pesante.
Nel frattempo qualche coglione tra i gestori del locale aveva avuto la brillante idea di accendere il megaschermo del televisore satellitare, probabilmente per far vedere a tutta la clientela che funzionava. Che non era una scatola a forma di televisore da ricchi.
Il vero problema era che questo mega schermo formato quadro rinascimentale si trovava a qualche metro da noi, giusto di fronte a me e allo Sfregiato, che eravamo i più fulminati di tutto il gruppo, come sempre. Lo vedevi anche senza volerlo. Un bombardamento di elettroni dai colori sgargianti. Il top.
Sintonizzato su di un canale sportivo, trasmettevano la diretta dalle Olimpiadi dei Disabili. Uno spettacolo surreale, di quelli che ti lasciano senza fiato. Lancio del giavellotto dei ciechi, marcia dei paralitici, basket in sedia a rotelle, tizi senza gambe che corrono i 100 metri su trampoli in carbonio e cose del genere. Uno shock se sei fuori come lo ero io. Faceva quasi paura.
Inquietudine totale.
Con le voci della cronaca, rigorosamente in inglese, che si sovrapponevano al reggaetton, all’Afro Beat e a tutta la musica proveniente dal bar, dalle auto, da tutta Abuja, alle voci dei clienti…c’era da impazzire. Non sentivo nulla di quello che gli altri mi dicevano. Ridevo come un idiota quando avevo la sensazione stessero dicendo qualcosa di divertente. Li imitavo. Cercavo di sembrare a posto. Non sarei durato a lungo, ne ero certo. Al secondo giro è iniziato il malessere, vortici e sudori freddi, sigarette a manetta e tutto il resto. Corri in bagno a sciacquarti la faccia, cerca di ripigliarti un attimo. Poi finalmente siamo riusciti a schiodarci.
Lasciando lì metà del mio secondo Singapore Sling. Ottimo cocktail, per chi non l’abbia mai assaggiato.

Non so chi l’abbia deciso, ma mi sono ritrovato assieme a tutti gli altri in un nuovo locale vicino all’Hilton. Un disco lounge bar, di quelli dove un dj suona, la gente beve qualcosa e chi vuole balla. Un posto carino, abbastanza elitario, dove si caricano belle ragazze. Di quelle che paghi come se fossi in Europa. Stile Bunga-Bunga. Anche questo in un palazzo adibito a centro commerciale, al quarto piano. Negozi di prossima apertura, agenzie chiuse, desolazione totale…qui succede spesso, andare per negozi può portarti in edifici spettrali, dove senti il rimbombo dei tuoi passi e l’eco della tua voce. Esperienza a volte suggestiva, a volte inquietante. Questa città non ha una storia, è stata progettata a tavolino nel mezzo della Nigeria 20 anni fa, e continuano a costruire indiscriminatamente, col miraggio di Abuja 2050. Qui credono ancora che il Futuro sia una promessa.
L’ingresso mi ha preoccupato, i buttafuori avevano il metal detector. Ma per fortuna qui essere bianco ti pone ad un livello superiore rispetto ai locali; evidentemente un’eredità del periodo coloniale, fatto sta che su di noi non l’hanno usato.
Ripensandoci non credo sia stata una gran fortuna…



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