mercoledì 9 marzo 2011

BISOGNO PRIMORDIALE




Man  Ray - Marquise Cassati

(anche nel suo salotto era primavera)

Mosche appaiate,
orgasmo segreto d’insetti
e gatti in calore lenti

Spine inserite con cura,
il jack deve entrare
là dove c’è scritto input

Spore sparse dagli alberi
in fiore,
persone che si accoppiano
gemendo nel vuoto
delle stanze chiuse

La forbice taglia la carta,
dalle tapparelle abbassate
lame di bagliore filtrano dentro,
corpi nudi in controluce.

giovedì 3 marzo 2011

COME IL CURRICULUM CHE NON SCRIVERAI MAI (PARTE 2)









Quell’ingresso aveva qualcosa di familiare nonostante fosse la prima volta che ci dava un’occhiata attenta, con la luce del giorno. C’erano foto di famiglia. Alle pareti un attestato di vendita di una moto d’epoca e due stampe in bianco e nero di Parigi; manco a dirlo la basilica del sacro cuore di Montmartre e la Tour Eiffel.
Una foto di lei da bambina che sorride sulla spiaggia, le sue labbra pronunciate già in fiore, gli occhi chiari illuminati dalla luce estiva solo un po’ sbiaditi per via della stampa dal rullino. Era proprio carina, pensava. E’ un peccato dopotutto mandare tutto a puttane come al solito. Ma bisogna.
Si stava perdendo ad esplorare i ninnoli di casa quando guardò l’ora sull’orologio da tavolo e si rese conto che doveva muoversi. Erano le otto e mezza. Era tardi. Doveva correre a prendere Fred.

S’erano accordati la sera prima, quando se l’era telata in fretta e furia da casa di Aurora, lasciandosi alle spalle tutta quell’aria noiosa che s’era creata a quella benedetta cena fatta tutta di discorsi imperniati sulla retorica da studentelli pusillanimi di filosofia che citano Marx a colazione e si tengono le chicchette su Heidegger per le cene fra colleghi in modo da dare almeno l’impressione di essere belli svegli o comunque darsi un tono con i presenti. Capite da soli che a sciorinare stronzate su Nietzsche non gli è mai riuscito di scopare proprio a nessuno eccettuati forse i casi di piccoli capetti della rivoluzione di ogni epoca; tipi infimi con le mani lisce e tanto buontempo. Nicola sapeva bene questo, conosceva tutti i nomi dei capetti-altern-collective del suo tempo e nella sua testa s’immaginava che perfino il buon Karl avrebbe messo fine a quella sfilza di conversazioni fondate sul niente con un risoluto pugno sul tavolo chiedendo silenzio e un altro bicchiere di buon vino renano.
Ma solo gli stronzi c’hanno i megafoni in mano; la maggior parte degli uomini con le palle se ne va avanti a testa bassa. E non pensava affatto alla gente perbene, quella non c’entra, avere le palle non ti fa necessariamente essere una persona rispettabile. Direzioni. Nicola s’era incantato nel piccolo atrio a pensare, lento, nonostante l’ora.

Il suono di un colpo di clacson che era filtrato dalla strada attraverso i vetri del balcone del soggiorno lo aveva fatto riatterrare nella realtà.
Afferrò da terra la borsa e il giaccone appeso, corse di nuovo attraverso il corridoio verso la camera, gettò tutta la roba per terra. Appoggiando il foglio ad una mensola, per usarla come piano per appoggiarsi a scrivere fu investito dai rimorsi – Che cazzo le scrivo ora – fissava ancora le decine di foto alle pareti, nel momento in cui la sfera della penna aveva toccato la pagina ogni dubbio era scomparso. Bisogna.
Le scrisse un bigliettino sommario, qualche decina di parole veloci in stampatello senza pensare - è stato bello – senza grande passione – ho ancora i tuoi succhi su di me – etc, stronzate – meglio se non ci vediamo più - .

A Nicola lei piaceva, ma non voleva prendersi lo sbattimento di sceglierla. Era piccolina e dolce, una ragazza da paura. Era stato proprio incantevole aver passato la notte assieme. Ma perché prendersi la briga di farlo accadere ancora? Era perfetto così.
E in quel momento non era in grado di tirar fuori altri pretesti quindi chiuse il foglio in quattro e ci scrisse sopra “per S.” posandolo sulle coperte sfatte del letto a due piazze, ci appoggiò affianco anche tutti i cioccolatini che aveva trafugato da casa d'Aurora, saranno stati una quindicina in tutto.
Ci sono mattine nelle quali non ti alzeresti mai dal letto, e quando stai quei due minuti in dormiveglia ancora sigillato dentro le lenzuola, la sveglia che suona monotona il suo canto di condanna, e pensi alla buone ragioni che avresti per startene lì l’intera giornata e poi finisci a convincerti che i doveri da sbrigare sono una delle cose che ti fanno sentire meno l’inutilità di questo mondo e allora scendi dalla giostra e metti i piedi a terra (e magari fuori piove) ma vorresti davvero poter girare i tacchi e rificcarti sotto le coperte finché tutto questo delirio non sia finito e poi ci sono altre volte nelle quali invece vorresti sgattaiolare via dal materasso molto prima che il sole si sia alzato, prima che la notte sia finita; toglierti dai coglioni al più presto e non dare spiegazioni, trovare la forza di farlo mentre lei dorme ancora, ma ci vuole manico per andare fino in fondo (e in genere il fatto di essere ancora mezzo sbronzo di gin tonic non aiuta molto a portare a termine con successo un’operazione del genere), devi contare la comodità del giaciglio e la stanchezza.
Il più delle volte ti giri dalla tua parte, la senti che dorme e pensi – fanculo non mi alzo, al buio inciamperei sicuramente fra le sue scarpe, e poi dove ho lasciato le chiavi, e poi sono le quattro etc.. – trovi migliaia di ragioni che ti tengono steso lì, così punti la tua sveglia alle sette e ti metti a dormire e preghi dio di essere capace ad alzarti la mattina che viene e, se proprio ti dovesse andare di lusso, di riuscire a chiuderti la porta del suo appartamento  alle spalle senza averla svegliata.




  

COME IL CURRICULUM CHE NON SCRIVERAI MAI (PARTE 1)






Lo specchio del bagno, punteggiato sulla superficie di schizzi d'acqua asciutti, restituiva l'immagine del suo volto. Al mittente. Quel naso balengo; i tratti tutti asimmetrici, duri, come gli aveva fatto notare una volta anche C. , durante una stupida conversazione al caffè. Gli occhietti piccoli & rossi. Era mattino.
Sulla sua sinistra la finestra appannata, zigrinata ed opaca. Vetri per non vedere. Fuori il parcheggio, giù in strada. E il freddo solare d'inverno.
Gli occhi piccoli di sonno, rossi. E quei capelli neri acconciati un fuori moda, "taglio geometrico" (quello sì, tutto giocato sulla simmetria) 20 € da Denis, il parrucchiere checca sotto casa.
Il petto semi rachitico, magro, leggermente in dentro e quel ventre che gli ricordava tanto quell'aspetto da uccellino bolso che aveva Coppi in una delle crono al Tour de France del 1949, in quel documentario visto su Rai Storia alle 3 della mattina una notte quel Novembre quando aveva avuto l’influenza intestinale. Si, si, se lo ricordava bene. Quel senso di tristezza che ti viene quando ti ritrovi a renderti conto di somigliare a cose o persone con le quali non avresti mai pensato di avere a che fare.  Un sentimento simile ad una rassegnata ed improvvisa accettazione che ti fa riconsiderare te stesso alla luce di quella rivelazione. Spiazzante.

<<C’hai la faccia uguale a quello lì, come si chiama? il frontman dei dei dei.. come si chiamano oddio..>> -  sempre C. quella volta al bar. O forse era stata qualcun’altra?
Non ricordava. Vero è che ci diciamo in continuazione parole inutili, in fin dei conti che motivo c’è di ricordarsele tutte?

Quelle conversazioni che rassomigliano a manetta ai documentari delle programmazioni notturne.
Le solite romanticherie nostalgiche all'italiana. Le solite storie. Le dispute Bartali - Coppi. L'asse Roma-Berlino-Tokio. Gli anni di piombo. La tradizione del bel canto, e tutti quei fatti che hanno anche solo sfiorato la vita del belpaese. L'invenzione giornalistica della dicotomia Beatles - Rolling Stones. Sono veramente sempre quelle.

Quel suo torso pallido e quasi glabro. E fatto male. Le costole si potevano contare, e più giù l'ombelico, gli slip neri. L’immagine riflessa finiva lì. Poi il lavandino. Le piastrelle bianche lucide; attaccati affianco l'armadietto adesivi di dinosauri con i loro nomi sotto. Diplodoco.
Quattro spazzolini e un dentifricio per bambini: si consiglia la supervisione di un adulto per evitare l’ingestione del prodotto, sul dorso del tubetto il disegno colorato di un topo dagli incisivi titanici e sfavillanti che sorride. Si osservava, abbozzando sulle labbra un sorriso, scorrendo con gli occhi il suo corpo. Sbadiglio. Sembianze di uomo giovane.
Aveva l'alito da coperte e gin tonic. Quel gusto acido dolciastro che ti resta sulla lingua una giornata intera.
Prese il tubetto spremendo fuori una punta di dentifricio sull'indice, lo passò sotto l'acqua per lavarsi la bocca.
Lavarsi i denti col dito. Da veri duri.

Cantava , passandosi il dito in bocca, <<no fun my babe no fun, no fun to hang around, freaked out for another day, no fun my babe no fun, no fun to be around, walking by myself, no fun to be alone, no fun my babe no fun...>>.

Aveva in testa quel pezzo, e aveva in testa quel vecchio video datato 14 Gennaio 1978; quella versione rifatta dai Sex Pistols al Winterland di San Francisco; la vecchia roccaforte hippie, capite, con tutti i crismi del caso, e il resto. Ora, un avvenimento è leggendario non perché uomini straordinari compiono azioni straordinarie in senso assoluto, niente al mondo è assolto da condizioni, ma perché secondo un determinato contesto un’azione ordinaria si carica di un significato potente, e quest’azione passa attraverso uomini a caso. Potrebbe anche essere il primo stronzo al quale non dareste nemmeno da accendere. Capite che il fatto che quel gruppo di balordi inglesi arruffati e incazzati col mondo intero partisse per fare un tour in America e facesse tappa proprio a ‘Cisco per suonare inni che sono l’incarnazione della morte totale dell’estate dell’amore e della sua generazione è un evento che è davvero eccezionale. Talmente banale e scontato da immaginare che fa quasi tenerezza.
Siamo una specie che ha una cura così maniacale nel tenersi addosso le proprie pene.  Gelosi a tal punto del proprio dolore che lo si esibisce davvero come fosse qualcosa che appartiene a noi soltanto. Come fosse l’ultima cosa reale che teniamo fra le mani; ci aggrappiamo ad essa con tutte le forze che abbiamo.
John Lydon, in ginocchio sul palco, e la sua voce sempre più strozzata sul quel "no funnn" fino a diventare quasi una specie di singhiozzo afasico, la distorsione merdosa della chitarra "no funnnn" il basso di Sid Vicious fuori tempo con la batteria "no funnnn", ad un certo punto John smette di cantare e fa: <<che palle, perché dovrei tirarla avanti?>>, poi guardandosi attorno, solo come un cane, non guarda la folla, né la band alle sue spalle. Guarda nel vuoto.
Come se stesse aspettando la fine. Come se stesse prendendo tempo perché sa che gli sta venendo incontro la morte; dalle smorfie di quel grugno stranito si capisce che  realizza in quel momento, proprio in quel punto del pezzo, che non c'é altra via di fuga da tutta quella merda che la fine.
E si capisce che non si sta affatto divertendo.

Nicola cantava. Col dito in bocca. Riflessioni. Connessioni logiche governate dal rapporto causale. Ci sono momenti in cui riesci a vedere la fine in diretta.
Ci sono momenti in cui riesci a sentire che la fine ti scivola sulla punta delle dita: presente, silenziosa, strisciante. Sui polpastrelli & sulle palpebre. Che ti spia. E ci sei dentro.
E’ una specie di smania.

Sputò dentro il lavello la schiuma, sciacquandosi la bocca con l'acqua fredda; passò più volte la mano sulla vasca di ceramica per togliere la saliva spumosa dal lavandino.
Ancora un’occhiata alla sua figura dentro lo specchio, restava ancora lì, passandosi le mani fra i capelli, dandosi una stropicciata al viso, sbadigliando.

Tornò verso la camera di lei. Si sbrigò a cercare i jeans, la camicia, i calzini sparsi a terra in mezzo ad altro casino. Coprirsi velocemente. Gelida nudità, freddo.
Vestendosi diede un occhiata più attenta a quella cameretta incasinata dal sapore ancora vagamente prepuberale; da piccola donna in boccio. Restò a scorrere le foto appese ovunque sulle pareti, abbottonandosi gli ultimi due bottoni dei jeans. Da ultimo le scarpe, decisamente troppo estive. Decisamente troppo bucate. Aveva uno strano dono Nicola, riusciva a distruggerne un paio al mese così come niente.

Aveva addosso quel mal di testa odioso e familiare. Postumi. Gola arsa e budella urlanti Ricomporre le tessere con precisione.
L’ordine cronologico è così prezioso la mattina dopo. Hai la scatola nera da qualche parte, non sai dove, e anche una chiave di lettura solo che spesso fai una fatica bestia a trovare la porta.  
La cena coi compagni di corso. Con i colleghi! La corsa da lei nella notte, l’una e mezza; le due forse?
Continuava ad osservare i cristalli di tempo fermo attaccati alla parete, stiracchiandosi. Lasciarle qualcosa di scritto. Corse verso il corridoio a cercare la sua borsa. La trovò sul pavimento dell’ingresso, sotto la sua giacca nera appesa all’attaccapanni da muro, la tracolla in pelle di montone australiano pagata l’ira di dio su internet. Rifiniture scadenti. Un classico degli acquisti in rete, la relatività della dicitura “come da foto”. Cercò fra i quaderni una penna e un foglio di carta; dentro il casino della borsa trovò anche dei cioccolatini che aveva preso, solo per il gusto di farlo, la sera prima a quella fottuta cena; neanche gli piacevano i ferrero rocher.   












mercoledì 2 marzo 2011

TU SEI PAZZO, DISTRICT OF COLUMBIA!


Notte di Bronzo.

Nessuna redenzione. Nessun riscatto. Nessuna possibilità. Docili libellule  sfioravano teneramente lo specchio cerebrale che Eugene cercava inutilmente di acquietare da anni, questi insetti leggeri lo rendevano pesante e muto, erano queste che lo rendevano così sconfinato e sconfitto da tempo.

Queste tornavano crudeli a posarsi sull’ impercettibile pellicola  che abbracciava il liquido, disegnando cerchi e fronti d’onda.

Libellule a miliardi scendere nel suo cervello; nugoli; valanghe appoggiarsi e tornare in volo armoniose per restare dentro la sua testa e carezzarlo; carezzare il suo interno.

Notte.
Sigaretta fuori al freddo. Solo.
Pisciato dentro il lavandino prima d’uscire di casa. Una canzone in testa. Io sono il tricheco? Seduto su un fiocco di mais ad aspettare la macchina che doveva venirlo a prendere.
Un tunnel di lampioni persi nella nebbia.
21 dicembre. Fra due anni svaniremo, se tutto va bene.
Le ore di sole in crescendo. Le giornate saranno più lunghe di qui in avanti.
I commentari ai dialoghi platonici, la nausea di A.

Nessuna possibilità. Nessun riscatto da pagare. Nessun rapimento. Increspature sull’acqua da registrare. Le azioni sono cerchi d’onda. Era tutto pessimo. Lei stava meglio di lui.
“Ha il cuore forte”, avevano detto i dottori. Una canzone in testa. Scu.. Scusi.. la direzione per la piazza?

Buio.
Sigaretta appoggiato alle porte della cecità. Solo. Solo non volevo finisse così. E’ un insulto.

Vi diranno. Vi diranno. Quel che vi diranno non ha nessuna importanza. Nessuna fottuta importanza. Il Messia coprofago autoingoiantesi. Vi diranno. Vi han detto. Quello che vi han detto non conta nulla. I segreti di stato e le corporazioni. Il potere economico tradotto in potenza legislativa. Le verità sulla biografia di W. Shakespeare.

Eugene soffiava in alto il fumo della cicca che si scioglieva con il vapore acqueo che condensava nell’aria torbida di pianura.
Gli avevano detto. Quello che aveva letto.
Nel referto riguardante le cause della morte di suo padre era tutto scritto chiaro. Infarto, ipertensione. Morte per attacco di cuore. Una notte d’Autunno. Una notte limpida e fresca, d’argento.

Le ragioni ufficiali accennano appena la verità. I fatti nella loro integrità.
Sapeva d’averlo ammazzato lui. Gocce di giorno.
Pisciato nel lavandino della lavanderia prima d’uscire. Come usava fare lui.
I segreti.
Restato tutto il giorno steso sul divano verde. Come usava fare lui.
Fumata una dose di brown sugar. Questo papà non lo faceva. Non l’avrebbe mai fatto.

Sì. Sono molto lontano da casa.
Sì. Sto solo male. Ma è solo un periodo. Passerà.
Si aggiusterà tutto. E invece. Nessuna possibilità.
Le ultime parole che suo padre gli aveva rivolto erano state queste: <<Tu sei pazzo, dio can!>>.
Ma non merita d'esser giudicato per questo.



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