(un racconto a puntate, di Emilio Brinis)
Lo Zuma Rock, direttrice Abuja-Kaduna
Ricordo una storia letta in gioventù,
una ballata, il racconto di un viaggio di morte intitolato "L’uomo del grande Nord". Al tempo non avrei mai potuto immaginare che…ma mi solleva pensare che
in questa lurida faccenda io non ho colpe. Non grandi colpe almeno…
E poi…sono stato veramente svelto…veloce
come un ninja impazzito.
Questa storia, per chi mai la ritroverà,
non è né uno sfogo né tanto meno una confessione in extremis. E’ la mia storia.
La storia di una notte d’acciaio e tanta musica di merda. Forse della mia
ultima notte. Di un gran casino.
E’ la mia ballata. Il mio canto di
morte. Scritto con il cherosene ed il sangue.
Signori, come si diceva in Marina…fuoco
alle polveri!
Per
noi stronzi che lavoriamo quaggiù, il pay-weekend è l’unica occasione nel giro
di un mese per godere di un fine settimana come quello dei lavoratori
occidentali. Con il sabato e la domenica liberi. Festivi. Si, si chiama
pay-weekend, ed inizia con il giorno in cui gli operai vengono pagati, l’ultimo
venerdì del mese...poi tutti a casa fino a lunedì.
Loro
tornano dalle famiglie, nei loro villaggi, a sputtanarsi i soldi in telefonini
e altre stronzate d’importazione, a farsi belli imitando i rapper stile yankee
delle soap opera, noi ci riposiamo un po’ e per un paio di giorni ce la
prendiamo comoda. Niente di particolare, due chiacchiere al club, una birra, una
partita a biliardo.
Le
altre settimane lavoriamo fino al sabato sera, a volte la domenica mattina…vita
da cantiere.
Quaggiù
con il lavoro ci facciamo un culo grande come una casa. Forse anche di più. Ma
ci sta, se non altro data la desolazione del posto in cui viviamo.
L’esperienza,
la formazione, la gavetta, l’importanza di vedere le cose da vicino. I grandi
cantieri, altro che edilizia. Queste erano le belle idee di cui avevo piena la
testa quando ho deciso di venire all’estero, quando ho iniziato a mandare i
curriculum, il giorno del colloquio, durante la visita medica, ed erano giuste.
Avevo centrato l’obiettivo. Per una volta avevo le idee chiare. Un’ eccezione
per i miei standard.. Avessi saputo che sarei finito in queste condizioni, ferito
e fuggiasco, e che probabilmente la storia potrebbe concludersi qui…beh, credo
che l’avrei pensata un po’ diversamente. O forse no…chissà. Sono sempre stato
un incosciente. Un avventuroso. Già.
Sono
arrivato qui ad Abuja ieri nel tardo pomeriggio, dopo un viaggio di due ore e
passa attraverso la savana, i villaggi lungo la superstrada Abuja-Kaduna ed i
grandi cantieri stradali, con il mio pick up nuovo di concessionario. Toyota
Hilux. Sdoganato da Lagos dieci giorni fa. Bianco come l’avorio. Un po’ ingiallito
dalla polvere della savana, la laterite secca, ma quella è inevitabile. Con i
battistrada delle gomme profondi come quelle dei rally e la trasmissione 4x4
funzionante…il giorno in cui me l’hanno assegnato, consegnandomi le chiavi, mi
sono sentito come se avessi appena ricevuto qualcosa di sacro. Ne avevo quasi
soggezione. Io prima guidavo un rottame con i fili di ferro che uscivano dalle
gomme e la carrozzeria fracassata. Tipo quella jeep dell’ONU abbandonata
all’angolo di una via a Lagos. Solo che quella era anche stata bruciata. Missione
di pace in territorio ostile.
Alle
porte della città, nei pressi della baraccopoli principale, ho congedato
l’autista, Ishaku, e ho guidato io fino al campo. Se la starà ancora spassando
con i soldi che gli ho lasciato. Un buon diavolo. Un musulmano che si spara 4
birre da 66 sotto una tettoia e lancia il pick up a 180 all’ora, di notte,
sulla strada buia e devastata dalle buche. Qui lampioni zero. Davvero un
visionario della guida.
Era
da un mese e mezzo che non tornavo in città; tra una palla e l’altra non ero
più riuscito a muovermi da quella diga del cazzo in mezzo alle montagne.
Questioni di lavoro, di autorizzazioni e di stanchezza.
Anche
questo viaggio non è stato del tutto autorizzato; anzi, tecnicamente sono
scappato. Evaso. Mi costerà forse una lettera di richiamo per insubordinazione
o per abbandono del posto di lavoro…ma io avevo organizzato tutto alla
perfezione. I capi poi hanno cambiato idea. Girato le carte in tavola. Fanculo.
Tanto
la lettera di richiamo non conta niente. Ora poi…
Qui
ad Abuja sono sempre stato bene, ed ogni volta che ci torno mi sento meglio.
Felice. Rilassato.
Sapete,
il ritorno…è ritornare; come quella canzone, “Take me home”. Stare lassù tra le
montagne è duro. Molto. Questione di solitudine, di silenzio, di abbandono.
Amen.
Qui
invece…ritrovo sempre il mio piccolo appartamento con i muri che ho abbellito
con dei disegni colorati nel primo periodo, quando ero l’unico giovane del
campo, e le conchiglie che pendono dal soffitto, il giardino dove avevo appeso
l’amaca per leggere, i miei colleghi e gli amici…sono arrivato che mi aspettavano
al club, con una Heineken ed un pacchetto di Rothmans Light pronti per me. Le Rothmans; che sigarette del cazzo.
Ed
è iniziato subito il circo. Come sempre.
Non
che sia mai stato uno che si tirava indietro, intendiamoci, ma qui si esagera. Si
gioca duro. Sarà l’Africa, che ne so, la desolazione, il fatto che tutto và
bene…non c’è mai limite ai festeggiamenti e alle baldorie tra cani di cantiere.
Tra pirati.
Abbiamo
iniziato a casa mia – era chiusa da tutto quel tempo e puzzava di legno vecchio
e polvere, uno schifo – come ai vecchi tempi, prima che mi trasferissero. Poi
una siesta al bush bar, da Mama Africa. Sempre adorato quel posto. Uno spiazzo
di terra secca lungo la strada statale, un mercato di artigianato locale, tre
baracche di legno e lamiera, tavoli e sedie di plastica bianca. Nel retro,
altre due baracche allestite con tendine e materassi, in cui puoi farti una
scopata per 5000 Naire. 25 euro circa. Il bush bar.
Noi quattro, “The Abuja’s Rejects”, come
avevamo deciso di chiamarci in una serata…diciamo… particolarmente ispirata. Il
Mitico, Il Mandriano, Lo Sfregiato ed io, Il Vecio.
Non
ricordo di preciso quanto siamo stati lì, tra i cani e le palme, a bere birre,
ma quando ci siamo incamminati verso il campo ero già fuori combattimento. Di sicuro
anche gli altri. Sbadigli continui. Una sigaretta dietro l’altra. Il passo
elastico, indeciso. Ed il sole doveva ancora tramontare.
E’
una delle lezioni dell’Africa: per quanto fatto tu sia, devi andare avanti, non
mollare, non fermarti. Devi rimanere attivo, è l’unica soluzione per non
crollare a letto e poi svegliarti il giorno dopo alle cinque del mattino come
un pirla.
Devi
lasciarti andare a quello che succede, e soprattutto, non opporti al tuo stato
fisico. In Italia non ce l’avrei mai fatta. Ma figurati.
Qui
è così, nulla ha mai importanza. Valgono tutto ed il contrario di tutto.
Perfino
ora, che tremo come una foglia, scatto ad ogni fruscio e fatico a reggere la
penna….
Ad
ora di cena c’era la festa del cantiere, presso il gazebo (“Payotte”, come si
dice qui) dietro il club, con griglie fumanti, musica e alcool a volontà. Vino,
birre, long drinks o super alcolici…tutto gratis. Una figata.
Per
l’occasione il capo campo aveva pure invitato un giovane dj e delle ballerine.
Uno
spettacolo anomalo: quel cazzone al posto di suonare il suo merdoso reggaetton
si è perso in comizi sulla Nigeria, la malaria, noi bianchi che siamo degli
stronzi con loro, eccetera eccetera. Poi si è deciso. Forse qualcuno deve
averlo minacciato. Suona, o non ti
paghiamo. E le ballerine…probabilmente delle prostitute pescate al Capitol
Lake o in qualche altro bordello in zona. Non erano lì solo per ballare
diciamo.
Comunque
è stata una cena divertente, ed è stato bello ritrovare i miei vecchi colleghi;
con loro, salvo qualche piccolo battibecco, sono sempre andato d’amore e
d’accordo. In diga invece…ci odiamo tutti.
Poi…devo
essermi distratto, o forse addormentato; quel che ricordo è che eravamo, sempre
noi quattro, a bordo del mio pick up, con la musica a palla, che sfrecciavamo
ad una velocità da nausea verso Abuja. In macchina facevamo casino, fumavamo,
ballavamo e ci agitavamo sui pezzi sparati dall’autoradio. Urlavamo a quei
poveri coglioni dei passanti e ci sporgevamo dai finestrini. Anche Abuja e le
luci dei suoi palazzi ballavano e si agitavano, si contorcevano sensuali, mi
invitavano seducenti e minacciose. Come le sirene che adescano i marinai.
Va tutto bene Vecio, non puoi fermarti
ora…
…la
compagnia nel frattempo si era allargata; qui si esce tutti quanti in branco,
come durante la leva…
Eravamo
seduti al tavolo di un cocktail bar in cima ad un palazzo, sulla terrazza con
vista sulla città. Sorseggiavo un Singapore Sling osservando le strade, le
automobili, gli altri palazzi…Abuja era bellissima ieri sera. Splendeva di
mille luci colorate, l’aria non puzzava tanto, le palme ed i giardini erano
solenni nella loro millenaria immobilità, esotici e misteriosi, si sentivano
tutte le musiche di tutte le macchine per strada. Le frenate. Le sgommate.
Qualche urlo di qualche incazzato.
Il
mix di alcolici continuava a lavorare di brutto, ci dava dentro pompando
pesante.
Nel
frattempo qualche coglione tra i gestori del locale aveva avuto la brillante
idea di accendere il megaschermo del televisore satellitare, probabilmente per
far vedere a tutta la clientela che funzionava. Che non era una scatola a forma
di televisore da ricchi.
Il
vero problema era che questo mega schermo formato quadro rinascimentale si
trovava a qualche metro da noi, giusto di fronte a me e allo Sfregiato, che
eravamo i più fulminati di tutto il gruppo, come sempre. Lo vedevi anche senza
volerlo. Un bombardamento di elettroni dai colori sgargianti. Il top.
Sintonizzato
su di un canale sportivo, trasmettevano la diretta dalle Olimpiadi dei
Disabili. Uno spettacolo surreale, di quelli che ti lasciano senza fiato.
Lancio del giavellotto dei ciechi, marcia dei paralitici, basket in sedia a
rotelle, tizi senza gambe che corrono i 100 metri su trampoli in
carbonio e cose del genere. Uno shock se sei fuori come lo ero io. Faceva quasi
paura.
Inquietudine
totale.
Con
le voci della cronaca, rigorosamente in inglese, che si sovrapponevano al
reggaetton, all’Afro Beat e a tutta la musica proveniente dal bar, dalle auto,
da tutta Abuja, alle voci dei clienti…c’era da impazzire. Non sentivo nulla di
quello che gli altri mi dicevano. Ridevo come un idiota quando avevo la
sensazione stessero dicendo qualcosa di divertente. Li imitavo. Cercavo di
sembrare a posto. Non sarei durato a lungo, ne ero certo. Al secondo giro è iniziato
il malessere, vortici e sudori freddi, sigarette a manetta e tutto il resto. Corri in bagno a sciacquarti la faccia,
cerca di ripigliarti un attimo. Poi finalmente siamo riusciti a schiodarci.
Lasciando
lì metà del mio secondo Singapore Sling. Ottimo cocktail, per chi non l’abbia
mai assaggiato.
Non
so chi l’abbia deciso, ma mi sono ritrovato assieme a tutti gli altri in un nuovo
locale vicino all’Hilton. Un disco lounge bar, di quelli dove un dj suona, la
gente beve qualcosa e chi vuole balla. Un posto carino, abbastanza elitario,
dove si caricano belle ragazze. Di quelle che paghi come se fossi in Europa.
Stile Bunga-Bunga. Anche questo in un palazzo adibito a centro commerciale, al
quarto piano. Negozi di prossima apertura, agenzie chiuse, desolazione
totale…qui succede spesso, andare per negozi può portarti in edifici spettrali,
dove senti il rimbombo dei tuoi passi e l’eco della tua voce. Esperienza a
volte suggestiva, a volte inquietante. Questa città non ha una storia, è stata
progettata a tavolino nel mezzo della Nigeria 20 anni fa, e continuano a
costruire indiscriminatamente, col miraggio di Abuja 2050. Qui credono ancora
che il Futuro sia una promessa.
L’ingresso
mi ha preoccupato, i buttafuori avevano il metal detector. Ma per fortuna qui
essere bianco ti pone ad un livello superiore rispetto ai locali; evidentemente
un’eredità del periodo coloniale, fatto sta che su di noi non l’hanno usato.
Ripensandoci non credo sia stata una
gran fortuna…
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