(un racconto a puntate, di Emilio Brinis)
Seconda Puntata
Abuja, Constitution Avenue
La
fase alcolica dell’esuberanza era passata, fine della baldoria, mi sentivo
stanco. Avevo voglia di tornare a casa, di andare a letto e dormire. Ma si era
in tanti, e penso qualcuno avesse intenzione di caricare. Ho ballato un paio di
canzoni Afro beat e sono finito seduto al bancone del bar, con la sigaretta in
bocca e lo sbadiglio a mitraglia, per ordinare un Jack Daniel’s. So che, viste
le condizioni, può sembrare una scelta scema, ma è l’unica cosa che mi è venuta
in mente. Poi, sono abbastanza allenato con i superalcolici.
Mi
osservava dall’altro lato del bancone, ammiccante, provocante, sorridendo e
mandandomi baci. Leccandosi le labbra. Io cercavo di non farci caso, sapevo che
sarebbe stata una gran seccatura. Volevo solo
andare
a dormire. Nel frattempo aspettavo che qualcuno degli altri si decidesse ad
andare, e sorseggiavo il mio whiskey. Si è fatta avanti, e in quel momento è
iniziato il casino.
Si
è alzata dal suo sgabello al bancone del bar per muoversi verso di me,
guardandomi con occhi maliziosi e sensuali. Con loro è sempre lo stesso copione
che si ripete un numero infinito di volte con un numero infinito di ragazze.
Puoi variare i locali in cui esci, magari andare in piscina al pomeriggio
quando non si lavora, al campo di tennis, ma è sempre lo stesso...sempre
uguale.
Vedono
noi bianchi e vengono a vendersi. Opportunità di guadagno facile e spesso
indolore, prostituzione o sesso a pagamento, il concetto è quello. E non
importa che tu sia giovane e bello, benvestito, simpatico, non islamico,
educato…qui non importa niente, sei bianco ergo
hai i soldi. Una scopata è un guadagno. Fine. Tanto meglio se duri poco. E te
le devi tenere in casa fino alla mattina dopo.
Non
sono stato proprio un gentiluomo, ma l’ho bloccata prima ancora che si sedesse
accanto a me. Le ho detto che mi lasciasse in pace. Che non cercavo compagnia.
Che ero stanco e volevo stare solo. Che andasse a rompere il cazzo a qualcun
altro. Di gente ce n’era.
Beh…almeno
sono stato schietto, sincero. Non sono uno che illude le donne, io. Nemmeno gli
uomini.
Lei
se l’è un po’ presa, del resto non le ho neanche dato il tempo di aprire la
bocca per dirmi “Ciao!”, o “Come stai?”. Ma per come la vedo io questa è solo
correttezza portata all’estremo.
Si
è dimostrata un po’ offesa, seccata, ma non penso di averla ferita nel profondo.
Infatti…non
se n’è andata, e vicino a me si è seduta lo stesso.
Mi
ha chiesto una sigaretta.
Glie
l’ho data. Una Rothmans.
Mi
ha chiesto di offrirle un drink.
Ho
detto di no.
Mi
ha chiesto perché.
Perché
no. Voglio restare da solo. Andare a casa. Dormire.
Uno
solo, anche una lattina di birra.
No.
Mi
ha chiesto qual è il problema.
Il
problema sei tu. E’ questo casino. Questo locale di merda.
E
mi ha mandato a cagare. Nella sua lingua, il dialetto hausa. Ma il fanculo è
sempre una delle prime parole di una lingua nuova che si imparano.
Ho
acceso una sigaretta. Sempre della stessa merdosissima marca di prima.
Qui
bisogna consumare in fretta il pacchetto, prima che diventino troppo secche. E
amare.
Vedevo il Mitico ballare veloce. Sempre
più veloce. Una turbina.
Lei
è rimasta seduta lì dov’era. Dura come un macigno. Ha parlato con il barista,
che dopo qualche attimo le ha servito un Jack Daniel’s. Doppio. Senza ghiaccio.
On the rocks.
Io
ho continuato a fumare e ho chiesto il conto. Era ora di andare. Sul serio. Ero
esausto. Fanculo gli altri.
Ho
chiesto il conto. Avevo consumato un solo whiskey. Singolo. Senza il ghiaccio.
Nel
conto ce n’erano due. Due maledettissimi whiskey. La stronza si era messa
d’accordo con quell’idiota del barista di addebitarmi la sua consumazione senza
chiedermi il permesso. Un accordo tra
nativi. Non si fa.
Pensavano
che non me ne sarei accorto. Che avrei pagato qualsiasi cifra scritta su quel
foglio del cazzo. Tanto, sono un bianco. Un
oybo.
Un
vecchio trucco delle prostitute del posto.
Ma
si dà il caso che per sgamare un vecchio trucco ci voglia un vecchio cane. E
io, guarda caso, sono un vecchio cane. Li conosco bene i trucchi, quaggiù. Li
conoscevo bene anche a Padova. Sono un professionista della notte. Un vero
bastardo.
Ho
perso le staffe. Non ci ho capito più niente. E sono iniziati i guai. I fuochi
d’artificio.
Al
barista ho detto che era uno stupido coglione, chiedendogli se era scemo o se
cercava di incularmi.
Gli
ho detto che non avrei pagato nulla. Che non mi faccio fregare così, dal primo
coglione dietro un banco in combutta con la sua amichetta puttana.
Gli
ho detto che volevo parlare con il direttore di quel cazzo di posto, con il
titolare. Che l’avrei fatto licenziare.
Altrimenti
avrei chiamato la polizia. La forze armate. L’ONU. Il Generale Mongo.
A
lei ho detto che era una troia. Che quel drink non glie l’avrei offerto mai e
poi mai. Piuttosto un calcio in culo. Che non avrebbe dovuto rompere i coglioni
a me. Che le avevo detto, le avevo chiesto di andarsene, di lasciarmi in pace.
Che
era una stupida puttana. A stupid bitch.
Ho
preso un boccale a caso dal bancone e le ho rovesciato addosso il contenuto.
Una birra verdastra e maleodorante. Chissà da quante ore era lì.
Il
boccale l’ho scagliato sul pavimento dietro il bancone, giusto per fare
contento quel ladro imbroglione di barista.
E’
esploso come una granata. Vetri scintillanti ovunque.
E
niente, questo è quanto.
Nella
teoria dei lavori con l’uso di esplosivi si impara che è l’esplosione di un
detonatore che innesca le cariche di dinamite e deflagranti per frantumare un
banco di roccia. Una detonazione. Si propaga attraverso la miccia detonante e,
raggiunte le cariche, salta per aria tutto. Al posto di una collina trovi un
buco. E tanta roccia di granulometria ridotta ammassata in un punto facilmente
raggiungibile da una pala per il carico nei camion. Naturalmente nel caso in
cui i minatori sappiano fare bene il proprio lavoro.
Il
detonatore è una cartuccia di plastica grande più o meno come un accendino. Una
stronzatina grande così. Il suo scoppio scatena un fenomeno di dimensioni
impressionanti. Un disastro per la natura. Impatto ambientale a mille.
Quel
che ho fatto io è paragonabile all’innesco di un detonatore. Ho dato il via.
C’è
stato come un momento di quiete dopo la mia sfuriata da uomo bianco schizzato,
ed il barman, umile e servile, con la sua camicetta bianca ed il papillon nero,
continuava a chiedermi scusa, a dire che era stato un errore, che aveva
sbagliato a battere il conto alla cassa. Che non voleva fregarmi. Il classico
errore di battitura, come si definisce nel gergo tecnico, niente di più.
Perdono, capo.
Sorry oooh, Oga.
No wahalla, Master.
Mi
implorava di non denunciarlo al titolare, di non chiamare la polizia. Di lasciare
stare l’esercito.
Non
aveva capito che stavo bluffando.
La
ragazza era scomparsa.
Penso
che molta gente mi stesse osservando, perché non mi sono allontanato, non mi
sono messo a cercare gli altri e non mi sono diretto verso l’uscita. Sono stato
lì, fermo come un idiota. Paralisi è il termine tecnico.
L’errore
in tutta la sera, l’unico errore che ho commesso, è stato quello. Restare lì
quei due minuti, non filarmela alla svelta.
Non
è stato ignorare il sonno e la stanchezza, bere come pochi, fumare erba fino a
non capire più niente, e uscire portandomi dietro un coltello. No. Quelle sono
cose che qui faccio regolarmente. Sono la routine. L’errore è stato non
filarmela subito. Non dire al Mandriano che avevo fatto una cazzata. Non
cercare Lo Sfregiato per darmi man forte. O magari un taxi.
E’
ricomparsa.
Era
stata al bagno, vicino all’uscita. Forse a sciacquarsi quella merda di dosso, o
a parlare con qualcuno.
Già,
a ripensarci deve proprio essere andata a parlare a qualcuno, a cercarlo. E’
tornata. Non sola.
Il
tizio con lei era un orango vestito a festa. Di quelli che girano per i
villaggi, tra le galline e le baracche in legno e lamiera, a fare i fighi con
le scarpe a punta, il vestito colorato cucito dal sarto, il bastone, il
cappello da cowboy, e l’orologio, gli anelli e le collane color oro. Una Toyota
parcheggiata chissà dove.
Un
po’ ridicolo, sì, ma grosso. Categoria Pesi Medi.
Venivano
verso di me, e lei mi indicava con occhi furiosi.
Mi
indicava con occhi furiosi e gli parlava. Avanzavano come Bonnie e Clyde.
Lui
mi fissava con lo sguardo algido di chi è cresciuto per le strade del Bronx. O
di Harlem. O di qualche altro posto di merda in Africa. Un duro. Come nei film.
Mac Facciadiculo. Ad ogni passo si avvicinavano, si facevano sempre più grandi.
Erano piazzati giusto tra me e l’uscita, e mi bloccavano l’unica possibile via
di fuga. A meno che non volessi lanciarmi giù dalla finestra, dal quarto piano.
Ma
a quello non ci ho pensato proprio. Sono qui in Africa da un anno e mezzo, e
sono un duro. Un cazzutissimo figlio di puttana. Giovane, ma super corazzato.
La
gente li faceva passare, faceva largo, ed infine mi sono arrivati davanti,
vicino al bancone.
Io
avevo già la mano in tasca. Avevo intuito che il mio piano di tornare a casa al
più presto avrebbe subito una variazione. Un cambio di programma.
Mi
si è piazzato davanti e come prima e come prima cosa si è tracannato un lungo
sorso dalla sua bottiglia di birra. Una Star da 66. Forse per farsi coraggio.
Non
ho potuto fare a meno di notare che
mancava di un incisivo sull’arcata superiore e che sul volto aveva i
tagli tipici degli yoruba di Lagos. Gente pericolosa. La ragazza urlava
rivolgendosi a me. Isterica dura. Io non la ascoltavo nemmeno. Mi stavo
concentrando. A lui basta un pugno per
ammazzarti.
Si
è rivolto a me chiamandomi “Bature”, che vuol dire uomo bianco, e mi ha chiesto
per quale cazzo di motivo avevo maltrattato la sua sorella. Qui sono un po’
tutti fratelli e sorelle. Societé tribale.
Era
minaccioso ed ostile, visibilmente incazzato. Mi ha chiamato “fucking man”.
Altro segno di pericolo.
Io
ho cercato di spiegargli che sua sorella si era accordata con il barista per
farmi pagare anche il suo conto, senza interpellarmi e senza il mio consenso.
Non
mi aspettavo che mi stesse ad ascoltare o che volesse capire quel che gli
dicevo.
Lei
continuava ad urlare come un’arpia.
Con
la conversazione non saremmo arrivati da nessuna parte. I presupposti mancavano
del tutto. Mi sentivo demotivato.
Scazzato,
ho mandato a fanculo entrambi. “Waka” è il termine che si usa qui. Il gergo indigeno.
Silenzio.
Tensione.
Rabbia.
Poi
un casino pazzesco. Come un boato, un’esplosione.
Le
urla si sovrapponevano a quella musica di merda.
(Continua...)
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